martedì 14 novembre 2017

Zippato il Dna, come si fa con i file pesanti: Apre nuove strade alla biologia sintetica.

Fonte: ANSA Scienze
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Come i documenti o le immagini pesanti, troppo grandi da spedire per e-mail, anche il Dna può essere 'zippato' in un formato più comodo per l'invio e, una volte giunto a destinazione, riportato alle dimensioni originali. Il metodo, descritto sulla rivista Nature Nanotechnology, è stato messo a punto in Svizzera, nel Dipartimento di scienze dei biosistemi del Politecnico di Zurigo. E' un nuovo strumento di lavoro al servizio della biologia sintetica, il nuovo filone di ricerca inaugurato dall'americano Craig Venter e che nel 2016 ha portato a ottenere una cellula con il Dna minimo per la vita. Le prime applicazioni della possibilità di comprimere il Dna potrebbero riguardare lo sviluppo di nuovi farmaci e la ricerca sui tumori.

Ispirandosi al metodo di compressione dei file digitali, il gruppo di ricerca coordinato da Kobi Benenson e Nicolas Lapique ha sviluppato una tecnica che permette di comprimere il materiale genetico per trasportarlo nelle cellule e, una volta all'interno, riportarlo nelle condizioni originarie. Si risolverebbe in questo modo il grande problema che oggi impedisce a biotecnologi e biologi sintetici di caricare nelle cellule grandi porzioni di Dna.

La soluzione scelta in questo caso è stata quella di eliminare le ripetizioni nella sequenza di Dna, trasmettendo l'elemento solo una volta. La compressione del Dna da trasportare nella cellula avviene inoltre in modo 'cifrato', secondo specifiche regole.

In questo modo si possono trasferire nelle cellule grandi quantità di informazioni e perfino, dicono i ricercatori, "un arsenale di componenti biologiche, come proteine e RNA, che lavorano in modo coordinato ad uno scopo preciso". Ad esempio, questi elementi possono segnalare se la cellula è sana o tumorale oppure permettere di ottenere sostanze complesse, come i principi attivi dei farmaci.

giovedì 2 novembre 2017

Prima azione a distanza tra particelle ‘bifronti’. Esperimento italiano osserva fenomeno mai visto.

Fonte: ANSA Scienze
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Per la prima volta due particelle di luce che si comportano nello stesso tempo sia come onde sia come particelle hanno esercitato un'azione a distanza l'una sull'altra: il fenomeno, bizzarro come tutte le leggi che regnano nel mondo dell'infinitamente piccolo studiate dalla fisica quantistica, è stato osservato per la prima volta grazie all'esperimento italiano pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto nelle università Sapienza di Roma e di Palermo.

Le possibili applicazioni riguardano le comunicazioni del futuro, incredibilmente più veloci di quelle attuali, e la loro sicurezza per mezzo della crittografia quantistica, ha detto Fabio Sciarrino, del Quantum Information Lab del dipartimento di Fisica della Sapienza, che ha coordinato la ricerca a livello sperimentale. La parte teorica è stata curata da Rosario Lo Franco, del dipartimento di Energia, ingegneria dell'informazione e modelli matematici dell'università di Palermo. Hanno partecipato anche ricercatori di Cina e Vietnam.

Il primo passo è stato dimostrare che una particella di luce (fotone) può comportarsi sia come un'onda sia come una particella e a questo scopo i ricercatori hanno utilizzato fotoni che oscillavano in una direzione specifica (polarizzati). Sono stati quindi prodotti due fotoni con questa stessa caratteristica e, osservandoli, i ricercatori si sono accorti che il comportamento dell'uno determinava quello dell'altro, indipendentemente dalla distanza: è il fenomeno che Einstein aveva chiamato 'azione spettrale a distanza' e che oggi i fisici quantistici chiamano 'entanglement', una sorta di groviglio nel quale una particella riesce a condizionare il comportamento di una particella simile anche se sono lontane.

"Abbiamo dimostrato che un entanglement a due fotoni nella loro duplice natura onda-particella è possibile", ha detto Lo Franco. Questo fenomeno, ha aggiunto, può essere chiamato "azione di dualità onda-particella a distanza" e il prossimo passo sarà riprodurlo per un numero crescente di particelle e in modo completamente automatizzato.(ANSA).

lunedì 7 agosto 2017

CERN: Ottenuta la prima 'impronta digitale' in HD di una particella di antimateria.

Fonte: ANSA Scienze

Ottenuta la prima 'impronta digitale' in HD di una particella di antimateria: ci sono riusciti i ricercatori del Cern di Ginevra nell'ambito dell'esperimento Alpha, arricchendo così l'identikit di questa misteriosa anti-particella 'catturata' per la prima volta nel 2010 e descritta nel 2016. I nuovi dati, pubblicati su Nature, rappresentano un importante passo avanti per capire le differenze tra materia e antimateria che potrebbero spiegare perché l'una ha preso il sopravvento sull'altra dopo il Big Bang, aprendo così la porta ad una nuova fisica oltre l'attuale Modello Standard.

L'impronta digitale dell'antidrogeno è stata ottenuta irradiando l'anti-particella con microonde simili a quelle usate per comunicare con i satelliti. Una volta colpito, l'anti-atomo rivela la sua identità emettendo o assorbendo energia a frequenze molto specifiche che danno uno spettro simile ad "un'impronta digitale, unica per ogni elemento", spiega il coordinatore dello studio, Michael Hayden.

In realtà, materia e antimateria potrebbero rappresentare un'eccezione: essendo speculari, le due dovrebbero avere linee dello spettro praticamente sovrapponibili. Per verificarlo, i ricercatori del Cern avevano già tentato di fare lo spettro dell'antidrogeno nel 2012, ma l'impronta ottenuta è risultata troppo grezza per essere confrontata con quella dell'idrogeno.

I fisici hanno quindi ritentato l'esperimento per migliorare il risultato. "Una delle sfide che abbiamo dovuto affrontare - sottolinea la ricercatrice Justine Munich - è il fatto che materia e antimateria si annichiliscono quando entrano in contatto, quindi abbiamo dovuto tenerle separate. Non è possibile mettere gli anti-atomi in un contenitore ordinario: devono essere intrappolati o trattenuti in una speciale bottiglia magnetica".

Al termine dell'esperimento, i ricercatori hanno potuto osservare le linee dello spettro dell'antidrogeno in modo molto più completo e dettagliato, scoprendo che ricalca quasi perfettamente quello dell'idrogeno. Ora serviranno analisi più approfondite per verificare eventuali discrepanze ad un livello di risoluzione ancora maggiore.

"Studiando le proprietà degli anti-atomi speriamo di comprendere meglio l'universo", commenta Hayden. "L'antimateria può essere prodotta in laboratorio, ma non sembra esistere in natura se non in piccole quantità. Perché? Ancora non lo sappiamo, ma forse l'antidrogeno potrà fornirci qualche indizio".

mercoledì 28 giugno 2017

Immortalare un pensiero diventa finalmente possibile! Basta "taggare" i neuroni in attività.

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Immortalare un pensiero diventa finalmente possibile: questo grazie ad una nuova tecnica di laboratorio che consente di 'taggare' i neuroni in attività, fornendo delle istantanee ultra-precise scattate in pochi minuti, invece che nell'arco di ore o giorni come con le tecniche tradizionali. Questo risultato, che imprimerà una forte accelerazione alla ricerca nel campo delle neuroscienze, è pubblicato su Nature Biotechnology dai ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (Mit) in collaborazione con la Stanford University.

Il nuovo sistema di 'etichettatura' dei neuroni, chiamato 'Flare', si basa su un interruttore genetico che si 'accende' quando la cellula nervosa si attiva generando un flusso di ioni calcio al suo interno: il tutto funziona se il neurone viene contemporaneamente illuminato da un raggio di luce blu. In questo caso l'interruttore genetico si accende e va ad attivare un altro gene che produce una proteina fluorescente, oppure altre molecole in grado di evidenziare il neurone. "Un pensiero o una funzione cognitiva in genere durano 30 secondi o un minuto: questo è il range che vorremmo catturare", spiega la ricercatrice Kay Tye del Mit.

In questo studio, i ricercatori hanno dimostrato che la tecnica riesce ad accendere una proteina rossa fluorescente per evidenziare i neuroni della corteccia motoria che si attivano nei topi che corrono sul tapis roulant. Lo stesso approccio potrebbe essere usato per etichettare le cellule nervose con nuove proteine chiamate Dreadds, che permettono il controllo dei neuroni tramite farmaci, oppure usando proteine sensibili alla luce, in modo da rendere i neuroni 'telecomandabili' con un raggio luminoso attraverso la tecnica dell'optogenetica.

La tecnica 'Flare' potrebbe diventare utile anche per studiare e curare malattie: nel caso dell'Alzheimer, ad esempio, potrebbe permettere di individuare i neuroni malati in modo da non intaccare quelli sani.

mercoledì 14 giugno 2017

Il cervello è super-complesso, ha fino a 11 dimensioni! La sua organizzazione scoperta con l'aiuto della matematica .

Fonte: ANSA Scienze
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Il cervello è molto più complesso del previsto, al punto che ogni volta che impara qualcosa di nuovo le sue cellule si riorganizzano e si collegano le une alle altre a partire da strutture semplicissime a due dimensioni come i piani, o a tre dimensioni come i cubi, fino a strutture molto più complicate, a cinque, sei e perfino 11 dimensioni. Pubblicata sulla rivista Frontiers in Computational Neuroscience, la scoperta si deve al progetto Blue Brain, nato nel 2005 per iniziativa del Politecnico di Losanna e della Ibm e con l'obiettivo simulare il funzionamento del cervello.

Le strutture nelle quali il cervello di organizza "sono come castelli di sabbia multidimensionali, che continuamente si materializzano per disintegrarsi subito dopo", ha osservato il coordinatore della ricerca, Henry Markram, direttore del progetto Blue Brain e ricercatore del Politecnico di Losanna.

I ricercatori sono riusciti a individuare questo lato finora nascosto e un po' fantascientifico dell'organizzazione del cervello applicando in modo nuovo la matematica allo studio delle neuroscienze. In particolare l'organizzazione dei neuroni è stata studiata utilizzando la topologia algebrica, ossia la branca della matematica che applica l'algebra per studiare le proprietà e la struttura delle forme nello spazio.

E' la prima volta che uno strumento del genere viene utilizzato dalle neuroscienze e applicarlo allo studio dei circuiti cerebrali ha permesso di scoprire che questi possono essere articolati secondo figure geometriche in più dimensioni.

I computer imparano a programmarsi da soli! Si apre un nuovo campo di ricerca.

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Computer che si programmano da soli: sembra fantascienza, ma potrebbe diventare realtà nel giro di pochi anni, grazie al concetto di apprendimento automatico e agli enormi database di software già esistenti. Lo affermano ricercatori del Politecnico di Zurigo, tra i primi a riuscire ad insegnare a una macchina a scrivere il proprio programma. Lo studio, pubblicato sulla rivista dell'ateneo, sta facendo da apripista per un nuovo campo di ricerca in rapida espansione, il cui obiettivo è automatizzare il più possibile il processo di programmazione.

Il modo in cui i computer programmatori apprendono è simile al modo in cui lavora, ad esempio, il programma di traduzione di Google. I database pubblici danno accesso a milioni di software per computer che contengono miliardi di stringhe di programmazione. Questa incredibile quantità di dati non può essere sfruttata da un essere umano, ma da un computer sì: le macchine, infatti, possono riconoscere schemi e capire quali codici vengono usati in un determinato contesto, imparando anche il loro significato e le regole alla base. "Secondo noi, la programmazione non deve reinventare la ruota ogni volta, ma imparare dagli esempi già esistenti", spiega il gruppo di ricerca guidato da Martin Vechev.

In futuro, i programmi potranno lavorare "a fianco" degli sviluppatori, come fanno le funzioni di completamento delle frasi che si usano per scrivere messaggi sugli smartphone. Per esempio, lo sviluppatore scrive il primo centinaio di linee di codice, che il computer confronta con i codici già presenti nel database. Poi, in base ai risultati, il computer dà suggerimenti su come continuare il programma, lasciando al l'essere umano la possibilità di accettarli o meno. Questo sistema permette alla macchina di continuare il suo processo di apprendimento, imparando a capire quali sono gli obiettivi del programmatore e migliorando i suoi suggerimenti.

domenica 11 giugno 2017

Anche i feti sanno riconoscere i volti: Proiettati con la luce nel grembo materno, attirano la loro attenzione!

Fonte: ANSA Scienze
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Anche i feti hanno la capacità di riconoscere i volti e ne sono così attratti da girare perfino la testa per non perderli di vista: a documentarlo, per la prima volta, sono le incredibili immagini ottenute con l'ecografia 4D in Gran Bretagna dai ricercatori dell'Università di Lancaster, che per studiare le capacità percettive dei nascituri hanno proiettato figure di luce nel grembo materno come in un cinema.

L'esperimento, pubblicato su Current Biology, è il primo a dimostrare la possibilità di studiare la percezione visiva e le capacità cognitive dei bambini ancora prima della nascita. I ricercatori lo hanno condotto su 39 feti alla 34esima settimana di gestazione, proiettando nel loro campo visivo dei fasci di luce raffiguranti volti umani al dritto e al rovescio. Le reazioni, filmate attraverso ultrasuoni in 4D ad altissima definizione, hanno lasciato tutti a bocca aperta.

"C'era la possibilità che i feti potessero trovare interessanti tutte le forme proiettate, a causa della novità dello stimolo", spiega il coordinatore dello studio, Vincent Reid. "Se fosse stato così, non avremmo dovuto vedere differenze nella reazione agli stimoli proiettati al dritto o al rovescio". In realtà, i feti si sono voltati molto più spesso quando venivano proiettate le facce al dritto, mostrando così una reazione "molto simile a quella dei neonati", sottolinea Reid.

La scoperta dimostra che l'attrazione che proviamo per i volti è qualcosa di innato, che non si apprende dopo la nascita con l'esperienza. Inoltre indica che la luce può penetrare nel grembo materno e i feti possono avere percezioni visive, anche se i ricercatori sconsigliano vivamente le future madri di fare esperimenti casalinghi puntando luci sul pancione. Gli studi scientifici invece continueranno, con l'obiettivo di verificare se i feti presentino anche la capacità di discriminare numeri e quantità come i neonati.

giovedì 8 giugno 2017

Creato il primo buco nero "elettromagnetico" delle dimensioni di una molecola!

Rappresentazione artistica dell’intenso flash a raggi X che colpisce gli elettroni dell’atomo di iodio (a destra) in modo da attirare a sé gli elettroni del gruppo metilico (a sinistra), come una versione elettromagnetica di un buco nero. Crediti: Desy/Science Communication Lab.
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Fonte: Media INAF
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Uno studio appena uscito sulla rivista Nature dimostra che è possibile generare un buco nero “elettromagnetico” di piccolissima taglia: le dimensioni di una molecola. Estraendo 54 dei 62 elettroni di una molecola di iodometano, infatti, i ricercatori sono riusciti a creare un oggetto in grado di attirare altri elettroni con una forza superiore a quella gravitazionale di un buco nero stellare.

I buchi neri, si sa, possono avere dimensioni anche molto diverse: da qualche volta a miliardi di volte la massa del nostro Sole. Un team di scienziati è riuscito a trasformare un intenso impulso di raggi X in un minuscolo “buco nero molecolare”. A differenza di quelli che si trovano nello spazio, questo buco nero non attira a sé la materia attraverso la propria gravità, ma attira gli elettroni con la sua carica elettrica, e provoca l’esplosione della molecola in una piccola frazione di secondo. Lo studio, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Nature, fornisce importanti informazioni per l’analisi delle molecole attraverso l’uso di laser a raggi X.
I ricercatori, guidati da Artem Rudenko della Kansas State University, hanno utilizzato il laser chiamato Linac coherent light source (Lcls) che si trova presso lo Slac national accelerator lboratory, negli Stati Uniti, per bombardare molecole di iodometano (CH3I) con luce ai raggi X. Gli impulsi generati hanno raggiunto intensità pari a 100 biliardi, ovvero milioni di miliardi, di kilowatt per centimetro quadrato. Il laser ha sbalzato via 54 dei 62 elettroni della molecola, creandone una nuova con una carica positiva 54 volte quella di un elettrone. «Per quanto ne sappiamo, si tratta del livello di ionizzazione più alto mai ottenuto con questa tecnica», dice Robin Santra del Center for free-electron laser science (Cfel), coautore dello studio.
Una ionizzazione così estrema non avviene tutta in una volta. «Il gruppo metilico CH3 è in un certo senso cieco ai raggi X», spiega Santra. «Inizialmente l’impulso a raggi X spoglia l’atomo di iodio di 5 o 6 dei suoi elettroni. La carica positiva che ne consegue significa che l’atomo di iodio è in condizione di attirare a sé gli elettroni del gruppo metilico, come una specie di buco nero atomico». La forza esercitata sugli elettroni è molto maggiore di quella che si verifica attorno a un buco nero di una decina di masse solari. «Il campo gravitazionale dovuto a un buco nero stellare non sarebbe in grado di esercitare una forza altrettanto grande su un elettrone», aggiunge Santra.

Schema del set-up sperimentale. Il fascio di raggi X interseca un fascio molecolare all’interno di uno spettrometro, che misura tutte e tre le componenti del moto dell’impulso ionico. TOF sta per Time of flight, ovvero tempo di “volo”, o spostamento, dello ione. Crediti: Rudenko et al. 2017.

Il processo avviene così rapidamente che gli elettroni risucchiati, vengono catapultati via di nuovo dall’impulso a raggi X. Il risultato è una reazione a catena durante la quale vengono eliminati fino a 54 dei 62 elettroni a disposizione. Tutto questo avviene entro un trilionesimo di secondo.
«Questo genera una carica positiva estremamente elevata, che si sviluppa nello spazio di un decimo di miliardo di metri. Il risultato finale è che la molecola si disintegra», spiega Daniel Rolles del progetto Desy presso il Cfel, coautore dell’articolo.
Questo tipo di esperimenti, condotti presso il Lcls statunitense o l’X-ray free-electron laser (Xfel) europeo, producono raggi X ad alta intensità, che possono essere utilizzati anche per determinare la struttura spaziale delle molecole complesse, arrivando al dettaglio del singolo atomo. Informazioni così precise possono rivelarsi di grande interesse, ad esempio nella biologia per comprendere il funzionamento di biomolecole.
«Lo iodometano è una molecola relativamente semplice per comprendere i processi che si verificano quando i composti organici sono danneggiati dalle radiazioni», dice Artem Rudenko. «Se sono presenti più di un singolo gruppo metilico, possono essere risucchiati anche più elettroni».
Il team che ha effettuato la scoperta è riuscito anche a descrivere in termini teorici queste dinamiche estremamente veloci. Questo è stato possibile grazie a un nuovo software, sviluppato per l’occasione. «Non è soltanto la prima volta che riusciamo ad eseguire con successo l’esperimento, ma è anche la prima volta che possiamo fornire una descrizione numerica del processo», sottolinea Sang-Kil Son del Cfel, coautore dello studio e responsabile del team che ha sviluppato il software di analisi. «I dati raccolti sono molto rilevanti per gli studi che fanno uso di laser a elettroni liberi, perché mostrano in dettaglio ciò che accade quando vengono prodotti danni da radiazioni».

Per saperne di più:
  • Leggi su Nature l’articolo “Femtosecond response of polyatomic molecules to ultra-intense hard X-rays” di A. Rudenko, L. Inhester, K. Hanasaki, X. Li, S. J. Robatjazi, B. Erk, R. Boll, K. Toyota, Y. Hao, O. Vendrell, C. Bomme, E. Savelyev, B. Rudek, L. Foucar, S. H. Southworth, C. S. Lehmann, B. Kraessig, T. Marchenko, M. Simon, K. Ueda, K. R. Ferguson, M. Bucher, T. Gorkhover, S. Carron, R. Alonso-Mori, J. E. Koglin, J. Correa, G. J. Williams, S. Boutet, L. Young, C. Bostedt, S.-K. Son, R. Santra e D. Rolles

sabato 3 giugno 2017

I robot diventano curiosi: Provano 'soddisfazione' quando imparano qualcosa di nuovo.

Fonte: ANSA Scienze
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I robot diventano curiosi e provano 'soddisfazione' quando imparano qualcosa di nuovo: si stanno moltiplicando gli esperimenti per programmare macchine capaci di esplorare l'ambiente in cui si trovanoe di imparare da cio' che vedono. Il più recente, descritto sulla rivista Artificial Intelligence e sul sito della rivista Science, è stato messo a punto da Todd Hester, dell'azienda Google DeepMind di Londra, e Peter Stone, dell'universita' del Texas.

Negli ultimi anni sono stati messi a punto molti algoritmi per tentare di rendere i robot curiosi, ma nessuno e' riuscito mai ad avvicinarsi alla curiosita' umana. I ricercatori hanno quindi tentato di migliorare questi programmi: ''stavo cercando metodi per rendere i computer piu' intelligenti e capaci di esplorare il mondo che li circonda come farebbe un essere umano'', ha detto Hester.

L'intenzione era di renderli capaci ''non di esplorare tutto e a caso, ma di fare qualcosa di un po' piu' intelligente''. Cosi', insieme al collega Stone, Hester ha sviluppato l'algoritmo Texplore-Venir, che si basa su una tecnica chiamata apprendimento per rinforzo. Questa tecnica viene usata da Google DeepMind per consentire ai programmi di padroneggiare i giochi da tavolo, come quella che ha permesso al suo computer di battere il campione mondiale di ''go''.

Nell'apprendimento per rinforzo il programma che cerca di raggiungere un obiettivo, ad esempio uscire da un labirinto, riceve una ricompensa ogni volta che una nuova mossa lo avvicina alla soluzione. In questo modo riesce a imparare con piu' efficacia e a migliorare progressivamente le sue prestazioni.Texplore-Venir invece fa qualcosa in piu': aggiunge anche un obiettivo interno, per il quale il programma si auto-ricompensa quando impara qualcosa di nuovo.

I ricercatori hanno provato il loro metodo sia su un bot, ossia un programma per computer, sia sul piccolo robot umanoide Nao, alto 50 centimetri e utilizzato in molti laboratori di tutto il mondo. Il risultato è stato positivo: i robot sono diventati curiosi. Secondo i ricercatori è un passo importante per rendere sempre più flessibili i futuri robot destinati a lavorare vicino all'uomo nelle case o nelle fabbriche.

venerdì 2 giugno 2017

Gli atomi obbediscono alla gravità, come nell' esperimento di Galileo.

Fonte: ANSA Scienze
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Uno dei più celebri esperimenti di Galileo Galilei, quello della caduta dei gravi, è stato riprodotto lasciando cadere nel vuoto degli atomi e dimostra che le leggi della gravitazione previste dalla teoria della relatività di Einstein valgono anche nel mondo dell'infinitamente piccolo. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature Communications e coordinato dall'Italia, nello stesso tempo dà anche torto ad Einstein e al suo scetticismo nei confronti della fisica quantistica.

"La teoria di Einstein era stata sviluppata per oggetti classici, come pianeti, stelle e onde gravitazionali, ma finora nessuno aveva mai verificato se le stesse leggi della gravità valessero anche nei sistemi quantistici", ha osservato il coordinatore della ricerca, Guglielmo Tino, dell'università di Firenze. L'esperimento, chiamato "Magia Advanced", è stato condotto in collaborazione con l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).
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Condotto in collaborazione l'Agenzia Spaziale Europea (ESA) e le università di Bologna, Vienna e quella australiana di Queensland, l'esperimento lascia già intravedere una ricaduta concreta, con lo sviluppo di sensori basati su tecnologie quantistiche per studiare i possibili precursori dei terremoti, il movimento del magma nei vulcani e per cercare i giacimenti minerari. I prototipi sono già stati messi a punto da una spin off dell'università di Pisa.
Nell'esperimento, che segna un'evoluzione di quello condotto nel 2014, sono stati fatti cadere nel vuoto atomi dalla proprietà singolari perché hanno nello stesso tempo due masse diverse e si trovano in due stati di energia diversi: una condizione comune nel mondo della fisica quantistica e che è analoga a quella del paradosso del gatto di Schroedinger che può essere vivo e morto nello stesso tempo. La novità è che atomi così stravaganti obbediscono alle leggi della gravità pensate per il mondo dei grandi oggetti.
"Non era mai stato fatto nulla di simile finora", ha detto Tino. "E' un risultato interessante - ha aggiunto - perché dal punto di vista teorico la relatività generale riesce a spiegare la gravità, mentre la meccanica quantistica spiega i sistemi microscopici: non ci sono teorie che funzionino per entrambi i sistemi e, in assenza di una teoria unificante, abbiamo fatto una verifica sperimentale".

Il punto di partenza è stato il principio di equivalenza di Einstein alla base della teoria della relatività generale e fondamentale per la comprensione della gravità e dello spazio-tempo. "Questo principio - ha spiegato Tino - implica l'equivalenza tra la massa inerziale e la massa gravitazionale e quindi che tutti i corpi cadono allo stesso modo".

Per metterlo alla prova anche nel mondo dell'infinitamente piccolo i ricercatori hanno fatto cadere nel vuoto atomi di rubidio raffreddati a temperature vicine allo zero assoluto. Hanno così riprodotto su una scala piccolissima una situazione analoga a quella dell'esperimento della caduta dei gravi di Galileo. "L'esperimento ha verificato che atomi in stati quantistici diversi cadono allo stesso modo".

venerdì 26 maggio 2017

Osservato l''abbraccio' dell'acqua intorno al Dna: Scoperta utile per capire le interazioni alla base della vita.

Fonte: ANSA Scienze
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Osservato l''abbraccio' dell'acqua intorno ad un filamento di Dna: l'hanno immortalato i ricercatori della Cornell University, negli Stati Uniti, grazie ad una tecnica di indagine che permetterà di studiare sempre meglio le interazioni dell'acqua con le molecole alla base della vita.

"Per studiare la biologia e le reazioni, non basta considerare l'acqua da sola: bisogna capire come si pone rispetto agli altri elementi e come interagisce. In biologia, soprattutto, bisogna capire come si comporta intorno a materiali come le proteine e il Dna", spiega il biochimico Poul Petersen, che ha coordinato lo studio pubblicato sulla rivista Central Science.

L'acqua influisce sulla struttura e sulla funzione del Dna, e il suo 'abbraccio' è già stato oggetto di vari studi in passato: alcune simulazioni avevano mostrato un ampio spettro di comportamenti che può assumere in corrispondenza del 'solco minore' del Dna, ovvero la regione in cui si avvicinano i due 'montanti' della doppia elica formati da un'alternanza di molecole di zucchero e fosfato.

Per osservare direttamente il 'guscio' di idratazione formato dall'acqua, i ricercatori della Cornell University hanno impiegato una tecnica di spettroscopia sviluppata nel 2015, che usa un raggio di luce visibile e un raggio a infrarossi per colpire il campione da analizzare, in questo caso un filamento di Dna bloccato su un prisma ricoperto di silicio. Si è così riusciti ad osservare per la prima volta la superstruttura di acqua che circonda una molecola biologica assumendo la stessa struttura chirale, cioè non sovrapponibile alla sua immagine speculare: un passo importante, spiega Petersen, per comprendere meglio il comportamento dell'acqua nei sistemi biologici.

"Di certo saranno molto interessati gli ingegneri che progettano sistemi biomimetici e che guardano alla natura per sviluppare soluzioni come i sistemi di filtraggio dell'acqua", commenta il ricercatore, sottolineando che un'altra possibile applicazione potrebbe essere lo sviluppo di nuovi materiali resistenti all'accumulo di microrganismi e alghe che intaccano le superfici umide.

sabato 20 maggio 2017

Costruito Supermagnete per il progetto ITER. Servirà per i futuri esperimenti sulla fusione nucleare.

Fonte: ANSA Scienze
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E' stato costruito in Italia il primo magnete del più grande reattore sperimentale del mondo, Iter, ideato per dimostrare la possibilità di produrre energia dalla fusione nucleare, il sogno dell'energia pulita.  Il magnete supertecnologico, costruito nello stabilimento della Asg Superconductors di La Spezia, è il più sofisticato al mondo. Altro 14 metri e largo 9, pesante 300 tonnellate, come un Boeing 747, ha la forma di una grande D maiuscola ed è il primo dei 18 magneti che costituiranno il cuore del reattore Iter in costruzione nella Francia meridionale, a Caradache. In Italia ne saranno prodotti 9, più 1 di ricambio, e altrettanti in Giappone.

Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor) è un progetto internazionale nato per accompagnare il percorso dalla fase sperimentale della ricerca sulla fusione nucleare alla possibilità effettiva di produrre elettricità su larga scala con centrali a fusione. Vi partecipano Unione Europea, Giappone, Stati Uniti, Russia, India, Cina e Corea del Sud, per un totale di 3.500 ricercatori di 140 istituti di ricerca di 35 Paesi.

Nel 2025 la sperimentazioneNel 2025 la prima sperimentazione della fusione nucleare, con il reattore Iter. La conferma arriva dal direttore generale del progetto Iter, Bernard Bigot. "Quando abbiamo iniziato il progetto c'era grande entusiasmo - ha detto a margine della presentazione del primo magnete nello stabilimento Asg- e i 35 Paesi coinvolti avevano fissato la scadenza al 2017 per l'accensione del plasma. "Ma nel 2014 - prosegue Bigot - è venuto fuori che il progetto era molto complesso, al di là dell'accordo politico aveva bisogno di ingegneria e di più tempo. Quando mi hanno chiamato a dirigere il progetto ho subito detto che il termine doveva essere spostato al 2025 e confermo questa data. I tempi sono sotto controllo". Il magnete costruito alla Spezia è il primo dei 17 che comporranno Iter e che "sono i più grandi mai costruiti - spiega - e costituiscono il cuore del progetto".  "Siamo molto orgogliosi, noi e tutti quelli che hanno lavorato per costruirlo", ha commentato Davide Malacalza, presidente di Asg Superconductors. "Il capo della produzione quando per la prima volta ha mosso questa bobina ha avuto la pelle d'oca. Ci sono voluti cinque anni per realizzare il prototipo". 

L'Italia è in pole position
L'Italia  è in pole position nella corsa alla fusione nucleare, con la tecnologia per il reattore Iter e per il contributo economico al progetto, con un ritorno decisamente in attivo. "Si calcola che l'Italia abbia contribuito per il 12%-13% ai 6,6 miliardi di euro stanziati finora dall'Unione Europea e che abbia recuperato un miliardo in commesse che ad ora riguardano il 55% del budget tecnologico previsto", ha detto il direttore del dipartimento Fusione nucleare dell'Enea, Aldo Pizzuto.
Grazie al ruolo di facilitatore svolto dall'Enea, "le aziende italiane che partecipano a Iter con contratti diretti sono circa 20, più un vasto indotto di subcontraenti. Sono almeno 500, inoltre, le imprese italiane che guardano con interesse al progetto Iter e una buona frazione di essere ha avuto la possibilità di parteciparvi".
Oltre che con i magneti superconduttori costruti dalla ASG Superconductors,  la tecnologia italiana entra in gioco anche nella fase di produzione dell'energia utile ad avviare la macchina, con i progetti avviati a Padova per accelerare le particelle ad altissima energia che dovranno a scaldare il plasma, Ancora in Italia si punta a costruire un Iter in miniatura chiamato Dtt (Divertor Test Tokamak), una macchina sperimentale da 500 milioni di euro destinata a fornire risposte chiave relative alla fattibilità scientifica e tecnologica della fusione nucleare. "Speriamo di condurla in porto prima possibile - ha detto Pizzuto - perché il suo compito è contribuire a rendere i futuri reattori a fusione i più economici possibile".

Intervista ad Aldo Pizzuto, direttore dipartimento fusione nucleare ENEA:


sabato 4 marzo 2017

L'Intelligenza Artificiale batte l'uomo a Texas Hold'em: verso l'intuito artificiale.

Fonte: ANSA Scienze
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Dopo gli scacchi, il Go e il poker classico, l'intelligenza artificiale è riuscita a battere l'uomo anche nel Texas Hold'em, la variante più complessa del poker, che prevede migliaia di possibili decisioni. Il programma DeepStack ha mostrato di saper ragionare e usare una sorta di 'intuizione' per riconsiderare la propria strategia. Un risultato che può avere applicazioni anche in tutti quegli ambiti in cui bisogna prendere decisioni complesse, dalla medicina alla difesa.

Il programma, descritto sulla rivista Science, è stato messo a punto fra Canada e Repubblica Ceca, con il coordinamento di Michael Bowling. DeepStack ha sconfitto lo scorso dicembre 10 giocatori professionisti su 11, dopo 3.000 partite giocate nell'arco di 4 settimane, ragionando e usando l'intuizione per riconsiderare la propria strategia.

E' riuscito a colmare il divario tra l'approccio usato per i giochi come gli scacchi, il Go e la dama, dove si hanno a disposizione tutte le informazioni, e quello impiegato nei giochi con informazioni 'imperfette', come il poker, dove i giocatori non dispongono delle stesse informazioni e prospettiva, ma devono 'muoversi' ragionando e usando l''intuizione', affinata attraverso l'apprendimento e allenamento, per rivalutare la propria strategia ad ogni mossa.

Rispetto agli altri programmi di intelligenza artificiale, è riuscito a migliorare la capacità di pensare ad ogni possibile situazione durante il gioco grazie a una tecnica di ri-soluzione continua. ''Insegniamo al sistema a imparare a valutare le situazioni - spiega Bowling - Ogni situazione è una mini-partita di poker. Invece di risolvere la partita intera, il programma risolve milioni di queste micro-partite, ognuna delle quali lo aiuta a rifinire la sua intuizione su come funziona il poker''.

Nonostante la complessità del gioco, il programma ha agito alla stessa velocità dell'uomo, con una media di soli 3 secondi. Per i ricercatori può avere applicazioni in tutti quegli ambiti in cui bisogna prendere decisioni complesse, come la scelta di una terapia medica, la pianificazione di una strategia difensiva o una negoziazione.

DeepStack non è l'unico programma ad essersi cimentato nel Texas Hold'em. A fine gennaio Libratus, sviluppato dall'università Carnegie Mellon, è riuscito a battere quattro dei migliori giocatori professionisti di poker in una maratona di 20 giorni a Pittsburgh, ma in modo diverso. Alla fine di ogni giornata di gioco, un algoritmo analizzava la strategia usata da Libratus, individuando le lacune e riparando le principali tre ogni notte. In questo modo era possibile aggiornare la strategia per ogni mano e nel corso della competizione il gioco diventava più aggressivo.

giovedì 2 febbraio 2017

Pronto il progetto del computer quantistico: Prototipo fra 2 anni, costo oltre 100 milioni di euro

Fonte: ANSA Scienze
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Sarà grande quanto un campo da calcio e costerà 100 milioni di euro, il primo computer quantistico, molto più potente di qualsiasi computer mai concepito e dalla portata rivoluzionaria. Dimensioni, caratteristiche, tecnologie, sono tutte descritte nel suo primo progetto operativo, che rende vicina e realistica la costruzione di questa macchina inseguita da decenni. Tanto che il prototipo è previsto tra 2 anni. Descritto sulla rivista Science Advances, il progetto si deve al gruppo coordinato da Winfried Hensinger, dell'università britannica del Sussex.

Sarà il calcolatore più potente mai realizzato: potrà risolvere in poco tempo problemi che a un normale computer richiederebbero miliardi di anni e potrebbe rivoluzionare industria, commercio e ricerca scientifica. ''Stiamo costruendo un prototipo che speriamo di completare entro 2 anni'', ha detto all'ANSA Hensinger. Inoltre, ha aggiunto, ''stiamo iniziando a cercare partner industriali per costruire il computer quantistico basato sul nostro progetto''. La macchina potrebbe essere pronta tra 10 anni, ma i tempi di realizzazione, ha osservato, ''sono difficili da stimare perché dipendono molto dai partner, gli investimenti e le persone coinvolte''.

Computer come questi si basano sulle tecnologie quantistiche, che permettono di manipolare il mondo dell'infinitamente piccolo. A differenza dei computer tradizionali, le cui unità di informazione (bit) codificano un valore alla volta (1 o 0), le unità di base dei computer quantistici (chiamate qubit) possono assumere diversi valori contemporaneamente, memorizzando molti più dati e per questo potranno elaborare le informazioni molto più velocemente. In questo progetto saranno usati come bit quantistici atomi caricati elettricamente, cioè ioni, che viaggeranno da un modulo all'altro del computer attraverso collegamenti fatti di campi elettrici. Nei progetti sviluppati finora, invece, i collegamenti erano previsti in fibra ottica.

Questo nuovo approccio consentirà una velocità di connessione tra i singoli moduli del futuro computer quantistico 100.000 volte maggiore rispetto al collegamento in fibra ottica. ''Per molti anni - ha osservato Hensinger - la gente ha pensato che fosse impossibile costruire un computer quantistico vero e proprio. Con il nostro progetto, non solo abbiamo dimostrato che si può fare, ma stiamo offrendo un piano di 'chiavi e bulloni' per costruire la macchina''. A differenza di quanto si potrebbe immaginare il primo computer quantistico non sarà piccolo, ha detto Hensinger, ma molto grande: potrebbe riempire un edificio grande quanto un campo da calcio, perché gran parte dello spazio sarà occupato dalle sofisticate macchine che genereranno i campi elettrici.

martedì 31 gennaio 2017

L'universo come un ologramma: Nuove conferme dai dati del satellite Planck.

Fonte: ANSA Scienze
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L'universo potrebbe essere davvero un gigantesco ologramma 3D, emanazione di un campo piatto bidimensionale: questa teoria cosmologica 'alternativa', elaborata negli anni '90, sembrerebbe infatti compatibile con i dati sperimentali raccolti sull'eco del Big Bang dal satellite Planck dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa). A indicarlo è lo studio pubblicato sulla rivista Physical Review Letters da un gruppo internazionale di fisici e astrofisici teorici a cui ha preso parte anche l'Italia con l'Università del Salento e la sezione di Lecce dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

L'ipotesi che l'universo funzioni come un enorme e complesso ologramma ha raccolto negli anni ''evidenze teoriche in vari settori della fisica delle interazioni fondamentali'', spiega Claudio Corianò, ricercatore dell'Infn e docente di fisica teorica nell'Università del Salento. ''L'idea alla base della teoria olografica dell'Universo - precisa l'esperto - è che tutte le informazioni che costituiscono la 'realtà' a tre dimensioni (più il tempo) siano contenute entro i confini di una realtà con una dimensione in meno''.

Per verificare la plausibilità di questo modello, i ricercatori hanno condotto un'analisi congiunta di aspetti teorici e fenomenologici della fisica dell'universo primordiale, insieme a studi di fisica delle interazioni fondamentali. I risultati di questa complessa analisi sono stati poi confrontati con i dati sperimentali satellitari sulla radiazione cosmica di fondo, l'eco del Big Bang appunto, risultando statisticamente compatibili anche con il modello olografico, e non solo con il modello corrente del nostro universo (chiamato Lambda-Cdm) che lo descrive come in fase di accelerazione a causa della presenza dell'energia oscura.  I ricercatori ritengono che i risultati di questo studio possano aprire la strada ad una migliore comprensione del cosmo, spiegando come siano nati lo spazio e il tempo in cui viviamo.

venerdì 6 gennaio 2017

Il cervello non smette mai di crescere: Continua a svilupparsi anche negli adulti.

Fonte: ANSA Scienze
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A sorpresa, il cervello umano ha trovato ancora il modo di stupire, superando la più consolidata delle teorie sul suo sviluppo: non è vero che una volta raggiunta l'età adulta resta uguale a se stesso, ma continua a crescere, almeno in una sua parte. Pubblicata sulla rivista Science, la ricerca è stata condotta da Jesse Gomez, dell' Istituto di Neuroscienze dell'università californiana di Stanford, e dimostra che nella parte del cervello specializzata nel riconoscere i volti si forma nuovo tessuto capace di assolvere nuove funzioni.
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Un risultato 'fantastico':
"Vediamo che questo tessuto cresce realmente", ha detto Gomez. La capacità di crescere del cervello è stata osservata in un'area che controlla una funzione importante, considerando che la capacità di riconoscere i visi è cruciale per avere una vita sociale, nei giovani come negli adulti. I risultati "indicano che ci sono dei cambiamenti concreti nel tessuto cerebrale che avvengono durante lo sviluppo, ha osservato il direttore dell' Istituto di Neuroscienze di Stanford, Kalanit Grill-Spector. "Penso - ha aggiunto - che questo sia fantastico".
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Proliferazione di microstrutture:
Finora era noto nell'infanzia e nell'adolescenza avviene un processo di eliminazione delle connessioni fra i neuroni (sinapsi) ormai diventate inutili per lasciare spazio a quelle più produttive. Adesso si è visto che avviene anche un altro cambiamento, nel quale si aggiunge qualcosa. I ricercatori hanno chiamato il fenomeno "proliferazione di microstrutture", anche se non sono ancora in grado di specificare quali sia la natura delle microstrutture. Un'ipotesi è che siano le 'ramificazioni' dei neuroni, ossia strutture chiamate dendriti che possono essere organizzate in modi diversi.
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L'esperimento:
I dati che documentano questi cambiamenti sono stati raccolti osservando il cervello in attività in 22 bambini e 25 adulti con una tecnica non invasiva come la Risonanza magnetica nucleare. E' emerso così che la regione del cervello che aiuta a riconoscere i visi continua a svilupparsi negli adulti., mentre non accade lo stesso nell'area che permette di riconoscere i luoghi, che resta invariata con il passare degli anni.
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Le prospettive:
Per Raffalella Tonini, esperta di Neuroscienze dell'Istituto Italiano di tecnologia (Iit) "è una ricerca molto interessante e importante" e segna "un notevole avanzamento" perchè potrebbe avere "implicazioni nella comprensione dei meccanismi alla base dei disordini dello sviluppo che portano a disturbi come autismo e schizofrenia". Queste nuove conoscenze aprono anche la "possibilità di identificare altri bersagli molecolari".

giovedì 5 gennaio 2017

Biomateriali a metà tra mondo vivente e inanimato - Plastiche con funzioni biologiche: cambiano colore e riparano ossa.

Fonte: ANSA Scienze
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Acqua e proteine della seta. Su questi due semplici 'ingredienti' si basa la 'ricetta' che apre la strada ad una nuova classe di materiali ibridi, al confine tra mondo vivente e inanimato. Tanto e' bastato infatti ai ricercatori della Tufts University, guidati dagli italiani Fiorenzo Omenetto e Benedetto Marelli, per sviluppare i primi biomateriali in 3D che possono essere programmati per compiere funzioni biologiche, come cambiare colore quando sono sotto sforzo o rilasciare farmaci, o ancora riparare le ossa. Il risultato, pubblicato sulla rivista dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas), puo' avere molte possibili applicazioni.

La seta, uno dei materiali più forti in natura
La struttura cristallina della seta e' unica e la rende uno dei materiali piu' forti in natura. La fibroina, la proteina che la rende resistente e si auto-assembla, ha la capacita' di proteggere altri materiali pur essendo completamente biocompatibile e biodegradabile. Grazie a queste proprieta', e' possibile costruire solidi di dimensioni molto diverse, anche piccolissime, per compiere determinate funzioni. In passato la stessa proteina e' stata utilizzata per ottenere delle spugne ma adesso si e' deciso di sfruttare altre proprieta', come la solidita' e la resistenza nel tempo: ''il nuovo materiale si comporta come una plastica dura. Ma oltre ad essere un solido, ha anche funzioni biologiche'', spiega all'ANSA Omenetto.

Viti che reagiscono al calore e producono farmaci
I ricercatori sono riusciti a costruire delle viti di fibroina: quando vengono esposte ai raggi infrarossi e scaldate fino alla temperatura di 160 gradi rilasciano enzimi o farmaci. ''Abbiamo ottenuto delle viti che si riscaldano aggiungendo delle nanoparticelle d'oro e possono assorbire le radiazioni'', continua Omenetto. In futuro, ''aggiungendo dei fattori di crescita si potranno avere delle viti ortopediche, capaci di aiutare la ricrescita delle ossa'', aggiunge. Le stesse capacita' sono state sfruttate anche per realizzare delle pinze chirurgiche che cambiano colore quando si avvicinano al loro limite meccanico.

In futuro bulloni 'sensibili' e oggetti per la casa rimodellabili
''La possibilita' di inserire degli elementi, di controllare il loro auto-assembleaggio e modificarne la forma finale, offre delle grandi opportunita' per realizzare biomateriali multifunzione'', commenta Omenetto. Anche se ancora serve molto studio, in futuro si potra' arrivare ad avere anche attrezzi, come dadi e bulloni, che sentono e segnalano le condizioni ambientali che li circondano, oppure oggetti per la casa che possono essere rimodellati.