lunedì 28 dicembre 2009

Forze di marea e tremori sismici.

Fonte: Le Scienze
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Uno strato di acqua ad altissima pressione al di sotto della faglia di San Andreas si comporterebbe come un lubrificante rispetto agli strati rocciosi circostanti.
Le forze gravitazionali esercitate dal Sole e dalla Luna sono in grado di influenzare sottili movimenti sismici, almeno per quanto riguarda la faglia di San Andreas: è questo il risultato di uno studio condotto da ricercatori dell'Università della California a Berkeley, pubblicato sulla rivista “Nature”.
Nello specifico, si tratterebbe di deboli tremori tellurici dovuti alla presenza fra i 15 e i 25 chilometri di profondità di uno strato idrico sottoposto a una pressione elevatissima, tale da portarlo a comportarsi come un lubrificante nei confronti degli strati di roccia circostante che potrebbero così subire facilmente piccoli scivolamenti.
"I tremori che registriamo sembrano essere estremamente sensibili a cambiamenti minimi nello stress”, ha osservato Roland Bürgmann, che con Robert Nadeau e Amanda M. Thomas ha condotto la ricerca. "Avevamo già osservato che onde sismiche provenienti dall'altra parte del globo sono in grado di innescare dei tremori, come nella zona di subduzione di Cascadia al largo della costa dello Stato di Washington con il terremoto di Sumatra dello scorso anno, o il terremoto di Denali del 2002, che li aveva innescati in diverse faglie della California. Ora abbiamo anche constatato che le forze di marea dovute al Luna e al Sole modulano questi tremori.”
"La grossa scoperta è che in profondità ci sono fluidi ad altissima pressione, a pressione litostatica, il che corrisponde alla pressione equivalente al peso di tutta la roccia soprastante, che ha uno spessore dai 15 ai 30 chilometri”, spiega Nadeau. "A una pressione così alta l'acqua fa da lubrificante per la roccia, rendendo la faglia molto debole.”
"Lo stress è di molti, molti ordini di grandezza inferiore alla pressione che c'è là, e questo è davvero molto sorprendente. E' come se poteste spingere con una mano e la faglia si spostasse”, ha detto Bürgmann. In effetti, lo stress di taglio dovuto al Sole alla Luna e alle maree oceaniche è pari a circa 100 Pascal, mentre la pressione a 25 chilometri di profondità corrisponde a circa 600 megaPascals, ossia sei milioni di volte superiore.
Secondo i ricercatori, anche se le forze di marea esercitate dalla Luna e dal Sole non sono in grado di indurre direttamente dei terremoti, possono innescare sciami di tremori profondi che a loro volta possono aumentare la probabilità di terremoti nell'area soprastante alle faglie interessate. (gg)

Il pericolo delle infezioni multiresistenti.

Fonte: Le Scienze
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L'improvvisa diffusione in tutto il mondo di un ceppo di E. coli resistente agli antibiotici sta creando una certa preoccupazione nel mondo medico.
L'improvvisa diffusione in tutto il mondo di un batterio resistente agli antibiotici sta creando una certa preoccupazione nel mondo medico: è quanto viene riferito in un articolo apparso sulla rivista f1000 Medicine Reports.
Con il suo intervento Johann Pitout del Dipartimento di patologia e Laboratorio di Medicina dell'
Università di Calgary, intende fare appello alla comunità medica affinché venga monitorata la diffusione del batterio dotato di multiresistenza prima che diventi necessario utilizzare antibiotici più potenti come prima risposta.
A conferire la resistenza alle penicilline sono gli enzimi denominati beta-lattamasi ad ampio spettro (Extended-spectrum β-lactamases, ESBL) che vengono prodotti dai batteri. Gli ESBL sono stati collegati comunemente alle infezioni nosocomiali, che vengono generalmente trattati con particolari antibiotici come i carbapenemici.
Tuttavia, in anni recenti, si è registrato un drastico incremento nelle infezioni di comunità, attribuibili a un singolo ceppo di E. coli che produce ESBL. Secondo Pitout, la rapida diffusione di questo particolare ceppo è dovuto, almeno in parte, ai viaggi internazionali attraverso aree ad alto rischio come il subcontinente indiano.
Utilizzando i carbapenemi come prima risposta a tale incremento delle infezioni si incrementa il rischio di indurre la resistenza degli antibiotici nelle comunità, vanificando alcune delle più potenti strategie antibatteriche disponibili attualmente.
Sempre secondo Pitout, la comunità medica dovrebbe utilizzare tutti i metodi disponibili per identificare le infezioni causate dai batteri che producono ESBL e testare empiricamente l'efficacia di altri antibiotici nel trattare infezioni acquisite in comunità.
“Se le minacce alla salute pubblica emergenti vengono ignorate, la comunità medica può essere forzata a utilizzare i carbapenemi come prima scelta per il trattamento delle gravi infezioni del tratto urinario”. (fc)

Neuroni in vitro che conservano la memoria.

Fonte: Le Scienze
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Inserendo nelle sezioni di ippocampo alcuni elettrodi di stimolazione, i ricercatori hanno verificato che l'attività spontanea di alcune particolari strutture “ricordava” quale elettrodo era stato attivato.
Per la prima volta, un gruppo di neuroscienziati della Facoltà di medicina della Case Western Reserve University è riuscito a ricreare schemi di attività di circuiti cerebrali mantenuti in vitro.
Nel campo delle neuroscienze, la memoria umana viene classificata in tre categorie: dichiarativa, che consente di memorizzare fatti o specifici eventi; procedurale, che consente di ricordarsi, per esempio, come si suona il piano o si va in bicicletta; e a breve termine, che permette di ricordare, per esempio, un numero telefonico finché non lo si compone.
In questo particolare studio, i cui risultati sono riportati nell'articolo "
Representing information in cell assemblies: Persistent activity mediated by semilunar granule cells", che comparirà sulla rivista "Nature Neuroscience" ed è attualmente disponibile online, gli autori Ben W. Strowbridge e Phillip Larimer erano interessati a identificare gli specifici circuiti responsabili della memoria di lavoro.
Utilizzando frammenti isolati di tessuto cerebrale di roditori, Larimer ha scoperto un modo per ricreare un tipo di memoria di lavoro in vitro. Per lo studio, la scelta è caduta su particolari strutture dell'ippocampo rappresentate dalle fibre muscoidi e dalle connesse cellule granulari, che sono spesso danneggiate nelle persone affette da epilessia e che hanno la particolarità di conservare la maggior parte della loro attività anche quando mantenute in vita in sottili sezioni di cervello.
"La constatazione che molti soggetti epilettici hanno deficit di memoria ci ha portato a chiederci se esista una connessione fondamentale tra queste strutture e i circuiti di memoria”, ha spiegato Larimer.
Dopo aver constatato un'attività elettrica spontanea in queste strutture mantenute in vitro, i ricercatori hanno inserito nelle sezioni di ippocampo alcuni elettrodi di stimolazione, verificando come la loro attività spontanea “ricordasse” quale elettrodo era stato attivato. Questo tipo di memoria in vitro aveva una durata media di 10 secondi, tanto quanto altri tipi di memoria di lavoro studiati in soggetti umani. (fc)

venerdì 4 dicembre 2009

George Smoot: vi spiego le nuove scoperte sulla nascita dell’universo.

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Ha saputo catturare per una buona ora l’interesse curioso degli studenti di vari licei lombardi, accorsi ieri pomeriggio alla sala Gaber del palazzo della Regione a Milano, su invito dell'Associazione Euresis e del Centro Culturale di Milano, in collaborazione con la Presidenza della Regione Lombardia e il Dipartimento di Fisica dell'Università degli Studi di Milano. È George Smoot, del Lawrence Berkeley Laboratory, University of California, premio Nobel per la fisica nel 2006 per i risultati ottenuti nel con il satellite Cobe (Cosmic Background Explorer) della Nasa, che hanno aperto un nuovo scenario sulla comprensione dell'intera storia dell'universo. Smoot ha accettato con entusiasmo la proposta di tenere una conferenza per gli studenti sul tema “La prima luce dell'Universo. L'avventura della cosmologia contemporanea” e ha raccontato con vivacità e col supporto di spettacolari immagini la sua esperienza di esploratore delle profondità cosmiche; esperienza culminata con la mappa dell’universo neonato disegnata in base ai dati raccolti da Cobe e che presto sarà perfezionata dai risultati della missione Planck dell’ESA. L’obiettivo delle ricerche di Smoot è di offrirci uno zoom sulle condizioni dell’universo ai suoi inizi, 380.000 anni dopo il big bang, attraverso l’analisi della radiazione di fondo a microonde che dagli abissi del tempo è giunta fino a noi. Così ne ha parlato a ilsussidiario.net poco prima di incontrare gli studenti.

Cosa si aspetta dalla missione Planck?
Col satellite Cobe abbiamo misurato per la prima volta le fluttuazioni del fondo cosmico a microonde (Cosmic Microwave Backgound, CMB), su scale angolari di sette gradi e con una buona precisione. Ora dalla missione Planck mi aspetto misure molto più precise del CMB, sia in termini di temperature che di scala angolare, cioè dell’orizzonte cosmologico che si potrà osservare. Sono misure che ci dovrebbero consentire di comprendere meglio le condizioni dell’universo nei suoi primi istanti e di risalire, dall’esame delle piccole increspature primordiali, alle strutture del cosmo come lo conosciamo oggi, popolato di galassie e dominato dalle forze fondamentali della natura.

Ma sembra che ci saranno “sorprese” anche a livello di rivelazioni sullo spaziotempo...
Sì. Una seconda novità che mi aspetto è di scoprire qualcosa circa i processi che hanno determinato la forma dello spazio-tempo: sarebbe interessante trovare tracce delle onde gravitazionali che potrebbero essere state presenti fin da epoche remote e hanno contribuito a distorcere la trama strutturata dello spazio-tempo. Sarà inoltre interessante raccogliere dati che consentano di mettere alla prova la cosiddetta teoria dell’inflazione, secondo la quale le fase iniziali dell’evoluzione cosmica sono state caratterizzate da un periodo di rapida espansione; le accurate misure di Planck ci permetteranno di studiare come si è innescata l’espansione e quali conseguenze ha prodotto.
Speriamo anche di trovare indizi utili per ricostruire i processi di formazione delle galassie.
Molte altre scoperte saranno possibili. Credo che i prossimi anni saranno anni molto eccitanti per la cosmologia e quindi un po’ per tutti.

In questi giorni ha ripreso a funzionare il super acceleratore LHC al Cern di Ginevra. Come cosmologo, cosa si aspetta dalle ricerche sulle particelle elementare come quelle che si faranno con LHC?
È suggestivo constatare come tutto sia connesso nell’universo. In particolare c’è un legame molto stretto tra il microcosmo e il macrocosmo: ogni cosa che succede a livello della materia microscopica, come quella studiata con LHC ha un riflesso sulla scala macro, quella delle galassie e delle strutture studiate da noi cosmologi. Molte delle domande alle quali cercano di rispondere i fisici delle particelle che operano al Cern, le ritroviamo nelle nostre indagini sull’infanzia del cosmo. Oggi tra le teorie più suggestive che cercano una verifica negli esperimenti come quello di LHC, ci sono quelle basate sulla supersimmetria: la differenza tra il gran numero di particelle presenti probabilmente ai primordi dell’universo rispetto a quelle che troviamo oggi, è dovuta proprio alla rottura della simmetria che si è verificata poco dopo il big bang, al quale le nostre ricerche si stanno avvicinando.

Pensa che sarà possibile arrivare ancor più vicino al momento iniziale, senza incontrare limiti?
Penso che non sapremo mai dove porre il limite. Peraltro, dico sempre ai giovani scienziati che per scoprire qualcosa di nuovo devono credere che ciò sia possibile, devono aver fiducia nei loro strumenti di indagine; altrimenti è inutile anche solo avviare una ricerca. Certo, ultimamente abbiamo fatto molti passi avanti e penso che prima o poi arriveremo ad avere un quadro abbastanza chiaro dello scenario cosmico. A questo punto sarà ancor più interessante porre quelle domande tipiche dei filosofi e dei teologi: perché esiste questo universo? Perché ha questa forma, questo modo di evolvere? Sono domande che comunque è possibile già porre oggi e sulle quali dialogare tra studiosi di diverse discipline.

Secondo la sua esperienza, quali sono state in fisica le scoperte più sorprendenti e inattese?
C’è sempre un quid di imprevedibilità anche nelle scoperte più attese. Certamente la presenza nell’universo della energia oscura, la dark energy, è stata uno delle scoperte che più mi ha sorpreso e che ha implicazioni ancora non del tutto evidenti, sia nella ricostruzione che noi cosmologi facciamo della storia passata dell’universo, sia nelle previsioni sulla sua possibile evoluzione futura.
Tra le altre scoperte in fisica, una che mi è sempre sembrata tra le più imprevedibili è quella della superconduttività, realizzata quasi cento anni or sono e che ancora si sta studiando per poter elevare il limite della temperatura alla quale è possibile far circolare corrente senza perdita di energia.
Ma poi sono sempre stupito dalle novità che vengono dal mondo della biologia e delle scienze neurologiche: sia per l’imprevedibilità delle loro possibili implicazioni, sia perché ci costringono a continui cambiamenti dei paradigmi con i quali inquadriamo molti fenomeni. Le scoperte che mi sorprendono maggiormente sono quelle che mi costringono a cambiare i paradigmi
mentali.

martedì 1 dicembre 2009

Identificato nuovo anticorpo in pazienti con pancreatite autoimmune.

Fonte: MolecularLab
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L'anticorpo, simile alla proteina umana UBR2, è diretta alla proteina PBP di Helicobacter pilori.
Uno studio frutto della collaborazione tra i ricercatori dell'Università di Verona, l'ateneo di Genova e l'istituto Gaslini della città ligure, pubblicato oggi dal "New England Journal of Medicine", tra le più prestigiose riviste scientifiche di medicina internazionale, descrive l'identificazione di un nuovo anticorpo presente nella maggior parte dei pazienti con pancreatite autoimmune e assente in quasi tutti i pazienti con cancro del pancreas.La ricerca, finanziata dal ministero dell'Università, è stata condotta da due equipe di ricercatori, genovesi e veronesi, guidati rispettivamente da Antonio Puccetti, responsabile del laboratorio di immunologia clinica del Gaslini di Genova e da Luca Frulloni e Claudio Lunardi, entrambi docenti della facoltà di Medicina dell'Università di Verona.Tale anticorpo è diretto contro una particolare porzione della proteina PBP dell'Helicobacter pilory che presenta una similitudine con una proteina umana (UBR2) presente nelle cellule del pancreas.
Questo meccanismo è definito di "mimetismo molecolare" ed è uno dei possibili meccanismi attraverso cui un agente infettivo può indurre una malattia autoimmune, una malattia cioè in cui il sistema immunitario aggredisce cellule e tessuti del nostro organismo."Dal punto di vista clinico, questo test è importante perché aiuta nel discriminare la pancreatite autoimmune dal cancro del pancreas – spiegano Claudio Lunardi e Luca Frulloni -. Bisogna infatti tenere presente che alcuni pazienti si sottopongono ad intervento chirurgico nel sospetto di cancro del pancreas e invece sono affetti da una pancreatite autoimmune che risponde molto bene alla terapia cortisonica".La pancreatite autoimmune è una malattia caratterizzata da una aggressione immunitaria della ghiandola pancreatica; le sue caratteristiche e i criteri diagnostici sono stati definiti solo negli ultimi anni. Il problema maggiore posto dalla pancreatite autoimmune è la diagnosi differenziale con il temibile cancro del pancreas.Identificare un nuovo marcatore che possa aiutare a distinguere la pancreatite autoimmune dal tumore del pancreas è un passo avanti fondamentale dal punto di vista clinico. Il lavoro condotto, quindi, verte essenzialmente sulla identificazione di un nuovo anticorpo presente nella maggior parte dei pazienti con pancreatite autoimmune. "Questo anticorpo è diretto contro una piccola porzione di una proteina dell'Helicobacter pylori che è simile ad una proteina umana presente nelle cellule del pancreas – spiegano Lunardi e Frulloni -. L'anticorpo diretto contro la proteina batterica riconosce anche la proteina umana, scatenando pertanto l'aggressione immunitaria nei confronti del pancreas. I risultati di questa ricerca sono di grande aiuto nella pratica clinica e sono confermati in un numero di pazienti molto ampio".

Uno studio sulla morte improvvisa e la sindrome da QT lungo.


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Uno studio internazionale, finanziato anche da Telethon, individua una variante geneticache spiega il maggior rischio di certe persone di andare incontro a episodi cardiaci fatali.
Perché alcuni individui muoiono improvvisamente di un arresto cardiaco in maniera del tutto inaspettata, spesso in giovane età? Una possibile risposta arriva da uno studio finanziato da Telethon, oltre che dai National Institutes of Health (Nih) americani e dal ministero degli Esteri, e coordinato da Peter Schwartz, direttore della cattedra di Cardiologia dell'Università di Pavia, dell'Unità coronarica della Fondazione Irccs Policlinico San Matteo e del laboratorio di Genetica cardiovascolare dell'Istituto Auxologico Irccs di Milano. Come descritto sulle pagine di Circulation*, la principale rivista scientifica in campo cardiovascolare, è stato individuato un gene che potrebbe spiegare questo aumento del rischio.Da quasi 40 anni Schwartz studia una patologia cardiaca ereditaria nota come sindrome del QT lungo e caratterizzata da un elevato rischio di aritmie, irregolarità del ritmo cardiaco che possono provocare sincope e morte improvvisa, talvolta anche nei lattanti (sindrome della morte in culla). A dare il nome alla malattia è l'allungamento di uno specifico parametro dell'elettrocardiogramma chiamato appunto "intervallo QT".Attualmente si conoscono almeno 12 geni associati alla sindrome, tutti coinvolti nel trasporto di ioni attraverso le membrane delle cellule cardiache. In circa la metà dei casi clinici, i difetti sono a carico del gene KCNQ1 (che controlla il flusso di potassio attraverso le cellule cardiache) e le aritmie potenzialmente letali si manifestano principalmente quando questi pazienti sono sotto stress, fisico o emotivo: sono i ragazzi che muoiono giocando a pallone, nuotando, oppure a scuola per un'interrogazione, ma anche al suono della sveglia o del telefono.
Per ridurre il rischio di sincope o morte improvvisa, le persone affette vengono trattate con farmaci beta-bloccanti e, nei casi più gravi, con la rimozione di particolari nervi della porzione sinistra del cuore coinvolti nell'insorgenza delle aritmie, oppure con l'impianto di un defibrillatore automatico.Eppure quello che i ricercatori non riuscivano a spiegarsi era l'estrema variabilità che osservavano fra gli individui portatori dello stesso difetto genetico: perché in un 20-30% dei casi queste persone vivono senza alcun sintomo per tutta la vita, mente altri vanno incontro ad aritmie talvolta fatali? Dovevano esistere degli altri fattori in grado di contribuire, insieme ai geni già noti, a determinare il rischio. Per scoprirli Schwartz e il suo gruppo hanno studiato il Dna di 500 individui sudafricani, appartenenti a 25 famiglie discendenti da un unico progenitore olandese, giunto a Cape Town nel 1690 (come si legge dai registri battesimali dell'epoca) e affetto da sindrome del QT lungo. La particolarità della popolazione studiata - un'autentica miniera d'oro per i genetisti - sta nel fatto che ben 205 di questi soggetti presentano la stessa mutazione a carico del gene KCNQ1, identica a quella del loro antenato (che per uno strano scherzo del destino si chiamava Pieter Swart, la "versione olandese" di Peter Schwartz).Analizzando il patrimonio genetico di queste persone, i ricercatori hanno studiato due particolari varianti di un altro gene, chiamato NOS1AP, che nelle persone normali inducono un lieve e ininfluente allungamento dell'intervallo QT, ma che quando sono associate a difetti nel gene KCNQ1 fanno letteralmente raddoppiare il rischio di sincope e morte improvvisa. In altre parole, la presenza di queste varianti genetiche, assai comuni nella popolazione generale, potrebbe spiegare almeno in parte il diverso destino dei pazienti con la sindrome del QT lungo.È la prima volta che vengono individuati con precisione dei "geni modificatori", capaci cioè di spiegare le diversità nella manifestazione clinica di una medesima malattia (penetranza in gergo tecnico). Come spiega lo stesso Schwartz, "questa scoperta ci permetterà di "scovare" quei pazienti affetti da sindrome del QT lungo più a rischio e di trattarli tempestivamente con terapie di prevenzione più aggressive". Ma non è tutto: come spesso accade nella ricerca biomedica, lo studio di condizioni piuttosto rare può mettere in luce meccanismi di base che potrebbero avere ricadute anche su patologie più diffuse. "È ragionevole pensare", spiega ancora il ricercatore pavese, "che i geni modificatori messi in luce dal nostro studio siano gli stessi che facilitano la morte improvvisa in certi casi di malattie cardiovascolari molto diffuse come l'infarto del miocardio o lo scompenso cardiaco".La scoperta è frutto di un grosso lavoro di squadra: oltre al team di Schwartz a Pavia, di cui fa parte Lia Crotti prima autrice del lavoro, hanno collaborato i ricercatori sudafricani guidati da Paul Brink dell'Università di Stellenbosch e Al George della Vanderbilt University di Nashville (Usa).* Lia Crotti, Maria Cristina Monti, Roberto Insolia, Anna Peljto, Althea Goosen, Paul A. Brink, David A. Greenberg, Peter J. Schwartz, Alfred L. George, "NOS1AP Is a Genetic Modifier of the Long-QT Syndrome". Circulation, 2009; DOI: 10.1161/CIRCULATIONAHA.109.879643