lunedì 29 dicembre 2008

Infanzia – Ai bimbi vivaci uno psicofarmaco per sedare



FONTE

Essere bambini è una malattia: così se un minore ha voglia di giocare, mostra disinteresse per i compiti e ha la frenesia di muoversi e giocare, uno psicofarmaco può “sedare” la sua vivacità.
La malattia, priva di qualunque fondamento scientifico ma scoperta/creata dalle opinioni di esperti e dottori, nasce negli Stati Uniti: l’Adhd, altrimenti detta sindrome da iperattività e deficit dell’attenzione, non richiede nessun esame diagnostico, nessun metodo oggettivo per stabilire l’esistenza di tale patologia in una bambino. Una vivacità, quella di bambini iperattivi curata con psicofarmaci, che è approdata in Italia con l’utilizzo del Ritalin. Una vivacità esagerata che spesso potrebbe significare semplicemente una forte vitalità del bambino o di disagi all’interno del contesto familiare o una mancanza di attenzione da parte dei genitori verso i propri figli.
Molte associazioni umanitarie in lotta contro la medicalizzazione del disagio dei minori si sono occupate del caso ed impegnate nella lotta contro questo uso indiscriminato di psicofarmaci dai pericolosi effetti collaterali sui bambini, fino a realizzare una video-inchiesta dal titolo “Epidemia chimica”.

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venerdì 26 dicembre 2008

ZFS (file system) - Capacità e Limiti

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ZFS è un file system open-source sviluppato dalla Sun Microsystems per il suo sistema operativo Solaris. È stato progettato da un team con a capo Jeff Bonwick. Il nome originario doveva essere "Zettabyte File System", ma è diventato un acronimo.
ZFS è noto per la sua alta capacità e per l'integrazione di diversi concetti presi da vari file system in un unico prodotto.
ZFS fu annunciato nel settembre del 2004[1]. Il codice sorgente fu rilasciato assieme a quello di Solaris il 31 ottobre del 2005[2] e rilasciato nella build 27 di OpenSolaris il 16 novembre 2005. ZFS fu fornito assieme all'aggiornamento 6/06 di Solaris 10 nel giugno del 2006[3].
Nel giugno 2007 viene annunciata l'adozione di ZFS anche per il Mac OS X Leopard di Apple, notizia inizialmente smentita nel corso del WWDC07 da Brian Croll, senior director di product marketing per Mac OS, che ha dichiarato che “ZFS non ci sarà", salvo poi smentire le smentita. ZFS non sarà comunque il file system principale di Mac OS 10.5 Leopard ma piuttosto affiancherà HFS+ .
ZFS è un file system a 128-bit, potendo fornire uno spazio di 16 miliardi di miliardi (16 quintilioni) di volte la capacità dei file system attuali a 64-bit. I limiti del ZFS sono stati progettati per essere così ampi da non essere mai raggiunti in una qualsiasi operazione pratica. Bonwick affermò che "per riempire un file system a 128 bit non sarebbero bastati tutti i dischi della terra".
Ecco alcuni limiti teorici del ZFS:

2^48 — numero di snapshot (2 × 10^14);
2^48 — numero di file (2 × 10^14);
16 exabyte — dimensione massima di un file system;
16 exabyte — dimensione massima di un file singolo;
16 exabyte — dimensione massima di un attributo;
3 × 10^23 petabyte — dimensione massima di uno zpool;
2^56 — numero di attributi di un file (attualmente limitato a 2^48);
2^56 — numero di file in una directory (attualmente limitato a 2^48);
2^64 — numero di device per ogni zpool;
2^64 — numero di zpools;
2^64 — numero di file system in uno zpool.
Un utente che volesse creare mille file al secondo, impiegherebbe 9000 anni a raggiungere il limite.
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« Anche se ci piacerebbe che la legge di Moore possa continuare per sempre, la meccanica quantistica impone alcuni limiti fondamentali sul calcolo computazionale e sulla capacità di memorizzazione di una qualsiasi unità fissa. In particolare è stato dimostrato che un chilo di materia confinata in un litro di spazio può effettuare al massimo 10^51 operazioni al secondo su al massimo 10^31 bit di informazioni (vedere Seth Lloyd, "Ultimate physical limits to computation." Nature 406, 1047-1054 (2000)). Un pool di storage a 128-bit completamente riempito dovrebbe contenere 2^128 blocchi (nibble) = 2^137 bytes = 2^140 bits; quindi lo spazio minimo richiesto dovrebbe essere (2^140 bit) / (10^31 bits/kg) = 136 miliardi di kg.Con il limite dei 10^31 bit/kg, l'intera massa di un computer dovrebbe essere sotto forma di energia pura. Secondo l'equazione E=mc^2, l'energia residua dei 136 miliardi di kg è di 1,2x10^28 J. La massa dell'oceano è circa 1,4x10^21 kg. Occorrebbero 4.000 J per aumentare la temperatura di 1 kg di acqua per 1 grado Celsius e circa 400.000 J per bollire 1 kg di acqua ghiacciata. La fase di vaporizzazione richiede altri 2 milioni di J/kg. L'energia richiesta per bollire l'oceano è circa 2,4x10^6 J/kg * 1,4x10^21 kg = 3,4x10^27 J. Quindi, riempire uno storage a 128-bit dovrebbe richiedere più energia che bollire gli oceani. »

mercoledì 24 dicembre 2008

D-Wave's AQUA (Adiabatic QUantum Algorithms) - Software scaricabile gratuitamente


D-Wave's AQUA (Adiabatic QUantum Algorithms) è un progetto di ricerca il cui obiettivo è quello di prevedere le prestazioni dei computer quantistici (a superconduzione adiabatica) su una serie di problemi difficili, derivanti da settori che spaziano dalla scienza dei materiali all'apprendimento delle macchine (neurorobotica & AI). AQUA@home usa i computer collegati a Internet per contribuire a progettare e analizzare algoritmi di calcolo quantistico, utilizzando il metodo Quantum Monte Carlo . È possibile partecipare al progetto utilizzando il vostro PC, scaricando gratuitamente il programma dai link qui sotto elencati.
AQUA@home is based at D-Wave Systems Inc., Burnaby, British Columbia, Canada.
Read this white paper on AQUA for information about the science of AQUA's application.
Download the AQUA application's
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venerdì 12 dicembre 2008

Rivedere al monitor i propri sogni

FONTE

Per ora i ricercatori sono riusciti a riprodurre dal cervello solo semplici immagini grafiche, ma la tecnologia, mira a "estrarre" sogni e altri segreti dalla mente delle persone.
Un gruppo di ricercatori giapponesi degli ATR Computational Neuroscience Laboratories è riuscita a elaborare e visualizzare immagini "riprese" direttamente dal cervello umano: lo riferiscono gli autori in un articolo (Visual Image Reconstruction from Human Brain Activity using a Combination of Multiscale Local Image Decoders) pubblicato sulla rivista "Neuron".
Per il momento i ricercatori sono riusciti a riprodurre dal cervello soltanto semplici immagini grafiche, ma una volta raffinata e sviluppata la tecnologia, affermano, potrà alla fine essere utilizzata per "estrarre" sogni e altri segreti dalla mente della persone.
"Per la prima volta al mondo è stato possibile visualizzare direttamente dall'attività cerebrale ciò che una persona vedeva. Applicando questa tecnologia può diventare possibile registrare e riprodurre le immagini soggettive che le persone esperiscono nei sogni", hanno osservato i ricercatori.
Quando una persona osserva un oggetto, la retina codifica sotto forma di segnali elettrici un'immagine che, così codificata, è inviata alla corteccia visiva. I ricercatori, guidati da Yukiyasu Kamitani, sono riusciti a tracciare i segnali e a ricostruire ciò che una persona stava vedendo. Nei loro esperimenti i neuroscienziati hanno mostrato ai loro soggetti le sei lettere della parola neuron e successivamente sono stati in grado di ricostruire le lettere su un monitor collegato a un computer che misurava e decodificava i segnali cerebrali. Per estrarre l'immagne basandosi sulla rilevazione dei contrasti, i computer hanno esaminato, per ogni immagine mostrata, qualcosa come 2 alla 100 stati alternativi possibili di voxel ("pixel" tridimensionali). (gg)

giovedì 11 dicembre 2008

Verso un cocktail di farmaci contro l'epatite C

Le differenze genetiche fra diversi ceppi virali nella codifica della proteina p7 sono in grado di alterare la sensibilità del virus ai farmaci che ne bloccano la funzionalità.

Una combinazione di diverse terapie simile quelle utilizzate nei casi di infezione da HIV potrebbe essere il migliore trattamento per il virus dell’epatite C (HCV).È quanto affermano i ricercatori dell’Università di Leeds in base a uno studio che ha avuto come oggetto la proteina chiamata p7. Le analisi, infatti, hanno rivelato che le differenze genetiche nella codifica della proteina fra diversi ceppi virali sono in grado di alterare la sensibilità del virus ai farmaci che ne bloccano la funzionalità. La proteina p7, secondo le attuali conoscenze, riveste un ruolo importante nella diffusione dell’HCV in tutto il corpo e rappresenta un bersaglio terapeutico potenziale per aggredire il virus.Il suo ruolo è stato scoperto nel 2003 da Steve Griffin, Mark Harris e Dave Rowlands della Facoltà di scienze biologiche della stessa università."Una delle sfide nella ricerca di nuovi trattamenti per il virus è la loro capacità di cambiare costantemente il loro corredo genetico”, ha spiegato Harris. "La nostra ricerca mostra che non sarebbe adatto adottare un approccio univoco per il trattamento dell’HCV con inibitori della proteina p7; riteniamo invece che diversi trattamenti in combinazione potrebbero avere una maggiore efficacia, dal momento che potrebbero tenere conto della variabilità di tale proteina.”Si calcola che nel mondo circa 180 milioni di persone siano affette dal virus HCV, un patogeno che causa un’infiammazione del fegato che può portare a un’insufficienza epatica o a un tumore.Il virus si diffonde per contatto con sangue infetto o altri fluidi biologici, è in larga parte asintomatico nelle prime fasi d’infezione e per esso non è ancora disponibile un vaccino. L’attuale trattamento standard prevede la somministrazione di farmaci antivirali non specifici ad ampio spettro.In quest’ultimo studio Griffin e Harris hanno esaminato la risposta dell’HCV a un’ampia gamma di composti tra cui la ben nota molecola antivirale rimantadina, che ha come bersaglio una proteina simile del virus dell’influenza. Si è così riscontrato come l’efficacia del farmaco dipenda in effetti dalla variabilità genetica della proteina p7."La nostra attenzione si è concentrata sulla rimantadina per verificare i suoi effetti poiché la p7 ha un ruolo simile a un’altra proteina trovata nel virus dell’influenza”, ha commentato Griffin. "Sebbene la rimantadina funzioni bene il laboratorio, ora abbiamo bisogno di sviluppare nuovi farmaci diretti specificamente contro la p7, e dovremmo sviluppare ulteriormente questo approccio per le future terapie.” (fc)

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mercoledì 10 dicembre 2008

Superconduttore a comando


Ora superconduce, ora no. E l'interruttore che spegne a comando la super-proprietà del nuovo dispositivo è un banale campo elettrico. In pratica, ciò che è stato realizzato da Andrea Caviglia e colleghi dell'Università di Ginevra è il primo transistor superconduttore. Il suo funzionamento, raccontato su Nature, rappresenta un traguardo della fisica applicata e apre la strada allo sviluppo di una nuova generazione di microchip - e quindi di computer - molto più veloce di quella attuale.
Per capire come funziona il dispositivo e perché sia ritenuto tanto promettente si deve partire da un'altra scoperta, fatta lo scorso anno dallo stesso gruppo di ricerca dell'ateneo svizzero e pubblicata su Science. In quello studio, i fisici hanno realizzato un singolo cristallo in cui due ossidi metallici (titanato di stronzio e alluminato di lantanio) si trovano separati. Tra questi due materiali, i ricercatori hanno trovato uno strato di elettroni liberi (nuvola elettronica) che a 0,3 Kelvin - cioè appena sopra lo zero assoluto - viaggiano senza alcuna resistenza. A quella temperatura, il cristallo diviene quindi un superconduttore.
Gli scienziati hanno ora scoperto il modo di spegnere e accendere la superconduttività di questo cristallo a piacere, o di modularla, semplicemente applicando un campo elettrico al punto di contatto tra i due ossidi. Il risultato è una versione superconduttiva dei transistor a effetto campo (Fet), dispositivi ben noti nella fisica applicata, in grado di passare da uno stato semiconduttore a uno isolante, e fondamentali nell'elettronica digitale (il fatto che la corrente possa passare o meno viene utilizzato come codice binario 1-0 con cui immagazzinare le informazioni).
Poiché il transistor a effetto campo è un semiconduttore, però, oppone sempre un po' di resistenza al passaggio di corrente. Questo vuol dire che la velocità a cui si possono far passare gli elettroni quando il dispositivo è “on” è limitata: aumentarla, infatti, significa sviluppare calore e oltre un certo limite questo effetto collaterale danneggia il transistor.
Un transistor superconduttore, invece, può far passare gli elettroni (e registrare informazioni) molto più velocemente, dal momento che non oppone alcuna resistenza al passaggio di corrente e, quindi, non sviluppa calore. Resta il problema delle temperature estremamente basse necessarie per la superconduttività. Un limite che la ricerca sta da tempo tentando di superare (Superconduttori caldi, Il segreto degli elettroni, Segrete simmetrie, Superconduttori ad alte temperature).
Un totale volta faccia della proprietà conduttiva dovuta alla presenza di un campo elettrico è già stato descritto lo scorso aprile in un altro studio apparso sulle pagine di Nature. In quel caso si passava addirittura da uno stato superconduttivo a uno superisolante. Osservato, oltretutto, per la prima volta (Ecco il superisolante).
Un'altra recente e importante scoperta dell'Università della Florida (Usa) nel campo della superconduttività dimostra, invece, l'esistenza di materiali che mantengono la loro peculiarità anche se sottoposti a un campi magnetici elevatissimi (Classe magnetica).

lunedì 24 novembre 2008

Parassiti usano scappatoia biochimica per ingannare il sistema immunitario

FONTE

Un team di ricercatori tedeschi e americani ha scoperto un meccanismo chiave attraverso il quale alcuni patogeni ingannano il sistema immunitario e bloccano il corretto funzionamento delle cellule immunitarie. Nell'anticipata pubblicazione online della rivista Nature Immunology, spiegano che i microorganismi intracellulari interferiscono nel funzionamento biochimico di uno dei più importanti meccanismi di difesa dell'organismo, ovvero i macrofagi (o cellule "mangiatrici"), attivando un enzima endogeno.La scoperta potrebbe aprire la strada verso trattamenti più efficaci per la tubercolosi e la toxoplasmosi.I macrofagi attaccano e consumano batteri e parassiti con l'aiuto di enzimi e dell'ossido nitrico. Tuttavia, il Mycobacterium tuberculosis, causa principale della tubercolosi, e il Toxoplasma gondii, un parassita unicellulare che può causare la toxoplasmosi, si trovano all'interno dei macrofagi stessi.Studiando gli effetti di questi patogeni sui macrofagi in colture e nei topi, gli scienziati hanno scoperto che i microorganismi attivano un enzima chiamato arginase nelle cellule mangiatrici.
L'arginase si trova naturalmente nei macrofagi e viene usato per regolare la produzione di ossido nitrico. In condizioni normali l'arginase è attivato quando i macrofagi producono troppo ossido nitrico, sopprimendone la produzione. Questo meccanismo agevola i microorganismi."Malgrado le scoperte siano basilari, suggeriscono che si potrebbero sviluppare farmaci per bloccare un tale sconvolgimento biochimico, ripristinando la produzione di ossido nitrico e rafforzando i macrofagi per attaccare gli invasori," ha detto Peter Murray del St. Jude Children's Research Hospital a Memphis, negli USA. Ha aggiunto che nessuno aveva esplorato in precedenza la possibilità che i patogeni intracellulari potessero sfruttare direttamente l'attivazione dell'arginase come forma di difesa."Le nostre scoperte rivelano che questi patogeni si sono evoluti e riescono ora a sfruttare una scappatoia biologica nel sistema immunitario," ha spiegato il dott. Murray. "Questa scoperta offre due importanti approfondimenti. Conferma la nozione che i patogeni usano modi incredibilmente diversi per manipolare il loro ospite e rivela un nuovo pathway attraverso cui un patogeno può indurre un enzima che normalmente non è presente in quei macrofagi e usare l'induzione di quell'enzima a suo vantaggio."Gli scienziati sperano che le loro scoperte aiuteranno lo sviluppo di farmaci mirati che inibiscono specificamente l'abilità dei patogeni che inducono l'arginase nei macrofagi. Combinando tali farmaci con i trattamenti esistenti per queste malattie potrebbe rappresentare un importante passo in avanti.In laboratorio la loro strategia ha già avuto successo. Topi geneticamente modificati che non presentano l'arginase nei loro macrofagi si sono rivelati molto resistenti sia alla tubercolosi che alla toxoplasmosi, rispetto alle loro controparti non modificate.

Scoperto da scienziati portoghesi il meccanismo di formazione dei vasi sanguigni

Il meccanismo di formazione di nuovi vasi sanguigni e di cicatrizzazione è stato scoperto da scienziati portoghesi. Le loro conclusioni, che potrebbero condurre a importanti progressi nella cura delle lesioni croniche, sono pubblicate on-line nella rivista PLoS One.Le ulcerazioni croniche come quelle dei diabetici, per esempio, sono difficili da curare ed hanno un processo di cicatrizzazione estremamente lungo. Talvolta, come accade per il 'piede diabetico', le ferite non si rimarginano affatto e bisogna ricorrere all'amputazione. La formazione di nuovi vasi sanguigni è una parte fondamentale del processo di cicatrizzazione cutanea, in quanto consente all'ossigeno, ai nutrienti ed alle proteine antinfiammatorie di essere trasportati fino alla ferita. Pertanto dei nuovi approfondimenti sulla formazione dei vasi sanguigni sono preziosi per poter sviluppare terapie per il trattamento delle lesioni.Le cellule endoteliali rivestono l'intero sistema circolatorio, dal cuore ai capillari, e sono responsabili della formazione dei nuovi vasi sanguigni. Sappiamo che nei punti in cui i vasi sanguigni sono riparati o formati ex novo, come le ferite, queste cellule endoteliali sono stimolate dalle cellule BM-PC ('bone-marrow-derived vascular precursor cells'), ossia le cellule precursore vascolari derivate dal midollo osseo. Le BM-PC sono state oggetto di un intenso studio nel corso dell'ultimo decennio, senza però che si riuscisse a identificare l'esatto meccanismo grazie al quale contribuiscono alla cicatrizzazione.

Cercando di comprendere in che modo le BM-PC comunicano con le cellule di formazione dei vasi sanguigni nei punti di cicatrizzazione, il team di ricerca portoghese ha esaminato a fondo i componenti del sistema di trasduzione del segnale di Notch. Questa via è stata implicata nella formazione di cellule endoteliali, precisamente negli embrioni, i tumori e durante la cicatrizzazione. Il team ha confermato che questa via è essenziale per la riparazione dei vasi sanguigni, ed ha scoperto che regola la capacità delle BM-PC di stimolare la formazione di nuovi vasi sanguigni.'Sapevamo che le cellule endoteliali sono stimolate dalle cellule originate nel midollo osseo', ha commentato Francisco Caiado, ricercatore presso l'Instituto Gulbenkian de Ciência in Portogallo e primo autore dello studio. 'Ora abbiamo mostrato che lo stimolo avviene tramite la proteina di Notch, che si trova nelle cellule derivate dal midollo osseo. Dopo l'attivazione, la via di Notch promuove l'adesione delle cellule precursore nel punto della lesione, dove stimolano le cellule endoteliali a fare nuovi vasi sanguigni'.Per testare la loro teoria secondo cui la via cellulare di Notch è implicata nella comunicazione tra le cellule BM-PC e le cellule endoteliali durante la cicatrizzazione, gli scienziati hanno bloccato l'attività Notch nelle BM-PC in vitro, per vedere cosa sarebbe accaduto. La formazione del gene bersaglio di BM-PC è stata ridotta, come pure la produzione di cellule endoteliali e la capacità delle cellule di aderire ai loro bersagli. In un altro campione, i ricercatori hanno incrementato l'attivazione della via di Notch, ed hanno osservato l'effetto opposto.Hanno quindi studiato negli animali l'effetto dei componenti Notch sulle proprietà di formazione di vasi sanguigni e guarigione delle ferite delle cellule BM-PC, ed hanno scoperto che iniettando normali cellule BM-PC in topi feriti si otteneva una maggiore formazione di vasi sanguigni nel punto della ferita. Invece, iniettando cellule BM-PC con la via cellulare di Notch inibita non si aveva alcun effetto sulla cicatrizzazione. Ne hanno dunque concluso che la guarigione delle ferite era stimolata dall'attivazione della via di trasduzione del segnale di Notch nelle cellule BM-PC.Una ridotta capacità di cicatrizzazione è un problema medico grave, specie per i diabetici e gli obesi che soffrono di ulcerazioni croniche. La causa ne è stata attribuita alla minore produzione di vasi sanguigni in risposta alle ferite, o ad una qualche disfunzione delle cellule che formano i vasi sanguigni derivate dal midollo osseo.Gli autori dello studio suggeriscono che la via cellulare di Notch nelle BM-PC potrebbe essere sfruttata per stimolare il potenziale di cicatrizzazione delle BM-PC, una conclusione altamente significativa per lo sviluppo di nuovi trattamenti per la guarigione di ferite croniche o lente a cicatrizzare.

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sabato 22 novembre 2008

Sistemi Neurorobotici: Quando l'informatica abbraccia la biologia

Una delle ultime frontiere delle neuroscienze è la neuro robotica, disciplina che si propone di far interagire robot e cervelli. Oggigiorno esistono diversi modelli sperimentali di cyberrobot che rappresentano il massimo risultato del connubio tra alta tecnologia e fondamenti di biologia e neuroscienze. Se definiamo l’apprendimento come la capacità di acquisire nuovi “comportamenti” attraverso l’esperienza, possiamo affermare che studiando sistemi bio-artificiali neuro-robotici, siamo in grado di investigare i meccanismi di plasticità sinaptica alla base dell’apprendimento.
L’intervento della robotica in questo contesto, attraverso un nuovo paradigma sperimentale che permette l’osservazione di un sistema neuronale connesso con un corpo artificiale, può aiutare alla comprensione dei meccanismi che sono alla base dell’apprendimento.
Con questo obiettivo sono stati realizzati dei sistemi ibridi, dove un “cervello” è stato interfacciato ad un sistema robotico al fine di studiare le proprietà adattive del sistema nervoso in modo
controllato. Fornendo un “corpo”, sebbene robotico, ad una coltura di neuroni, il “significato” dell’attività e della dinamica neuronale emerge in maniera più evidente. In questo caso infatti, l’attività stessa della rete è anche frutto delle stimolazioni indotte dall’interazione con l’ambiente. La rete di neuroni possiede un corpo che, muovendosi nell’ambiente, fornisce “esperienza” permettendo lo studio di comportamenti "intelligenti".

Il primo esempio: un cervello di lampreda connesso a un robot mobile.
Alla fine degli anni ’90 il gruppo di Mussa-Ivaldi presso la Northwestern University di Chicago ha proposto per primo il paradigma sperimentale dove una porzione di cervello di lampreda (una sorta di anguilla dotata di un sistema nervoso molto semplice) è stata collegata ad un corpo artificiale, ovvero un piccolo robot mobile dotato di due ruote ed alcuni sensori di prossimità. Individati specifici percorsi neuronali mediante micropipette di vetro (usate in registrazione) ed elettrodi di metallo (usati in stimolazione) si è creato un “anello chiuso” collegando il segnale elettrofisiologico alle ruote del robot e gli stimoli visivi del robot al sistema di stimolazione del preparato neurale (vedi figura).
Il sistema neuro robotico sviluppato alla Northwestern University dal gruppo del
Prof. Mussa- Ivaldi. Lo schema della preparazione neuronale e della posizione
dgli elettrodi (sinistra). Il robot mobile Khepera (destra). L’interfaccia hw/sw
(centro) tra robot (destra) e lampreda (sinistra). Adattato da Karniel et al. (2005).

Attraverso opportuni, semplici schemi di codifica e decodifica dell’informazione, il segnale elettrofisiologico è tradotto in comandi motori per le ruote del robot, il quale si muove in un ambiente ricco di stimoli luminosi. I sensori di prossimità (usati in modo solo passivo, per
monitorare dove sia collocata la fonte luminosa) raccolgono informazioni sull’ambiente circostante, che vengono tradotte in forma di impulsi elettrici che ritornano al cervello in-vitro al fine di stimolarne l’attività neurale e chiudere il ciclo di informazione.
In questo modo il robot, comandato dal cervello in vitro, si trova a compiere un task di “tracking” del segnale luminoso (figura 1). L’originalità dell’idea ha aperto un nuovo filone di ricerca a cavallo tra le neuroscienze e la neuro ingegneria favorendo una serie di nuovi approcci teorico-sperimentali. Questa nuova modalità sperimentale di un sistema neurale “incorporato” (i.e., embodied) e “situato in un ambiente” (i.e., situated) permette di investigare il rapporto corpo-cervello ed i meccanismi di base di comunicazione ed apprendimento in condizioni controllate.

Neuroni in coltura e "animat".
Il gruppo di Potter al Caltech (CA; USA) ha invece proposto un nuovo paradigma sperimentale di neurorobotica in vitro in cui una rete di neuroni (accoppiata ad una matrice di microelettrodi) è connessa bi-direzionalmente ad un “animat” (i.e., simulated animal). L’attività neuronale è registrata ed utilizzata per muovere un topo virtuale in un ambiente simulato. Il sistema così descritto è un esempio di modello semplificativo a parametri controllabili del cervello dove una rete di neuroni nonstrutturata ma “embodied” può interagire con l’ambiente circostante ed è possibile studiare le capacità intrinseche adattive e le dinamiche neuronali, intese come
modalità di elaborazione dell’informazione in risposta agli stimoli esterni. A partire dai pattern di attività elettrofisiologica si elabora una direzione di movimento (sinistra, destra, avanti, indietro) e opportune stimolazioni elettriche trasducono l’input sensoriale, ovvero chiudono il loop con il risultato dell’interazione nell’ambiente virtuale. L’effetto globale dell’attività della rete è in qualche modo espresso dal comportamento (traiettorie) del robot. Il sistema proposto, benché non sia stato in grado di mostrare comportamenti orientati a compiti specifi
ci (i.e., evitare gli ostacoli, muoversi in direzione privilegiate seguendo stimoli particolari), realizza una semplice modalità per cui è possibile passare dal correlato neuronale ad aspetti macroscopici di tipo comportamentale (figura 2).

Sistema neuro robotico proposto dal gruppo di S. Potter

A partire da questo modello sperimentale sia il gruppo di ricerca di Potter (Bakkum et al. 2004) che il gruppo del prof. Sergio Martinoia del DIBE- Dipartimento di Ingegneria Biofisica ed Elettronica dell’Università di Genova (Novellino et al. 2007), hanno proposto nuovi sistemi d’interazione di tipo senso-motorio in anello chiuso che realizzano una comunicazione
bidirezionale tra neuroni e robot in tempo reale. Il primo gruppo ha sviluppato il sistema
chiamato “hybrot” che si muove in un ambiente definito con compiti di navigazione finalizzati ad evitare un altro piccolo robot mobile, che si muove in maniera casuale (figura 3).


Hybrot (http://www.neuro.gatech.edu/groups/potter/)

Il secondo gruppo ha realizzato un’interfaccia neuro-robotica che realizza in tempo reale un compito reattivo volto ad evitare ostacoli reali (figura 4).


Interfaccia neuro-robotica proposta dal gruppo di Martinoia

Neuroni in coltura accoppiati a un robot autonomo.
In parallelo ad alcuni altri autori che hanno proposto paradigmi sperimentali simili, il gruppo del
professor Sergio Martinoia (http://www.bio.dibe.unige.it/) in collaborazione con il gruppo del professor Vittorio Sanguineti del DIST (Dipartimento di Informatica Sistemistica e Telematica) dell’Università di Genova, ha sviluppato un nuovo sistema di misura costituito da una matrice
di microelettrodi accoppiata in modo cronico ad una rete di neuroni, interfacciata bi-direzionalmente ad un robot autonomo. Il robot si muove in un’arena circolare di 80 cm di diametro, contenente ostacoli circolari della stessa dimensione del robot. Al robot sono assegnati semplici compiti di navigazione (quali esplorare lo spazio circostante evitando gli ostacoli); in particolare, distribuiti pochi ostacoli all’interno dell’arena, si studiano i meccanismi di controllo reattivo e di capacità di apprendimento rispetto al compito assegnato. Il robot è connesso con la rete di neuroni, accoppiata alla matrice di microelettrodi, che ne costituisce il sistema di controllo. Il sistema sperimentale è stato sviluppato secondo una architettura modulare a multiprocessore il cui elemento principale è costituito da un sistema ad anello chiuso in tempo reale. Parte del
software di controllo è stato realizzato in collaborazione con la società ETT srl di Genova:
(http://www.ettsolutions.com/). L’attività elettrofisiologica (acquisita tramite le matrici di microelettrodi) è analizzata in tempo reale per estrapolare l’attività neurale (motoria) che andrà a controllare la velocità delle ruote del robot, allo stesso tempo i neuroni ricevono la trasduzione in stimoli elettrici del feedback sensoriale che codifica la prossimità del robot agli ostacoli (figura 5).

Sequenza da una sessione sperimentale


Prospettive future
Una popolazione di neuroni in coltura che cresce su di un substrato planare rappresenta una struttura indifferenziata nella quale le funzioni sono in qualche modo “offuscate” (non facilmente identificabili come in un sistema in-vivo) anche se le proprietà computazionali sono comunque presenti. È evidente, come più volte sottolineato, che non abbiamo nessuna architettura pre-definita ma possiamo sfruttare, anche se solo in 2-D, le capacità della rete di auto-organizzarsi e di ri-modellare le sue connessioni sinaptiche se provvediamo a fornire alla rete le opportune interazioni con l’ambiente, ad esempio attraverso la connessione ad un corpo robotico.
La novità introdotta dal nuovo paradigma sperimentale neurorobotico è rappresentata dalla
possibilità di coniugare, in un sistema controllabile ed analizzabile, le parti costitutive con cui opera un sistema complesso come un organismo vivente: cervello, corpo e ambiente. Queste tre realtà, che non possono venir facilmente disgiunte, sono, anche se a livello rudimentale, ri-comprese nel sistema sperimentale descritto. Rodney Brooks (Brooks 1991) descrive l'intelligenza come la capacità di interagire con successo con l'ambiente per raggiungere comportamenti finalizzati ("goal directed behavior"). I neuroni hanno,d'altro canto, intrinseci scopi e funzioni (trasmettere segnali, integrare gli ingressi sinaptici, ottimizzare le connessioni,ecc...); queste funzioni intrinseche stanno alla base dei comportamenti intelligenti finalizzati, così come sono stati introdotti. Ovviamente, le basi per lo sviluppo dell'intelligenza sono innate ma le interazioni con un ambiente sufficientemente complesso sono altrettanto necessarie perchè l'intelligenza possa manifestarsi e svilupparsi.

Nel modello sperimentale neuro-robotico, gli scopi "intrinseci" e "locali" della rete di neuroni sono soggetti ad una dettagliata analisi morfo-funzionale, mentre l'esecuzione di comportamenti finalizzati (come evitare gli ostacoli) sono osservati attraverso le attività del corpo robotico. La convinzione è che questi sistemi bio-artificiali possano condurre ad una più precisa definizione e ad una migliore comprensione delle basi neurofisiologiche dell'intelligenza. Queste semplici osservazioni, ci inducono a pensare che forse anche alcune parti e studi di base riferiti alle neuroscienze vadano in parte ripensati alla luce delle possibilità offerte dalle tecnologie robotiche. Lo studio del sistema neuronale isolato, sebbene fondamentale per la comprensione dei meccanismi fini a livello neurofisiologico e biochimico, è comunque intrinsecamente limitato ed in parte fuorviante se si vogliono investigare gli aspetti computazionali, di apprendimento e se si vogliono studiare in maniera quantitativa i processi cognitivi. L'interesse nei sistemi neuro-robotici introdotti può quindi avere un impatto rilevante per cogliere i nessi tra i meccanismi intrinseci di base e le funzioni cognitive ad un più alto livello. Questi sistemi ibridi si potrebbero rivelare interessanti non solo per studi di neuroscienza di base ma anche (o soprattutto) per gli aspetti applicativi legati allo sviluppo di sistemi intelligenti artificiali "bio-ispired" o per lo sviluppo di neuroprotesi di nuova generazione. (Fonte)

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venerdì 21 novembre 2008

Risolte equazioni di cromodinamica quantistica (QCD)

I calcoli confermando che il modello standard descrive correttamente le masse delle particelle che formano oltre il 99 per cento della massa dell'universo visibile.

Il Modello standard, che descrive a livello quantistico le particelle elementari e le loro interazioni, predice correttamente la massa dei protoni e dei neutroni. Secondo la cromodinamica quantistica i gluoni legano fra loro i quark che formano protoni e neutroni. Dato che la teoria prevede l'energia di queste particelle e che per la nota equazione di Einstein massa ed energia sono equivalenti, dalle equazioni della cromodinamica quantistica si dovrebbe poter ricavare anche la loro massa.
La risoluzione effettiva di quelle equazioni, tuttavia, è di complessità estrema e solamente oggi un gruppo di ricercatori europei del
Centro di ricerca a Jülich della Helmholtz Gesellschaft, della Bergische Universitat Wuppertal, della Università Eötvös a Budapest, e del CNRS francese sono riusciti a risolverle, grazie anche all'uso massiccio del supercomputer "Jugene" ospitato a Jülich, e ne danno notizia in un articolo pubblicato sull'ultimo numero di "Science".
L'approccio seguito dai ricercatori diretti da Zoltán Fodor prevede la visione dello spazio e del tempo come parte di un reticolo cristallino quadri-dimensionale con punti discreti spaziati lungo righe e colonne. Gli autori hanno risolto le equazioni per un grande numero di reticoli via via più fini per poi estrapolare la soluzione a un mondo continuo. Le masse di protoni neutroni e altri adroni leggeri dalla vita molto breve coincidono con quelle che sono state misurate sperimentalmente, confermando che il modello standard descrive correttamente le masse delle particelle che formano oltre il 99 per cento della massa dell'universo visibile.

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Microscopia 4D per il nano-mondo

Come riferito nell’articolo pubblicato sulla rivista “Science”, gli studiosi hanno utilizzato la nuova apparecchiatura 4D per osservare il comportamento degli atomi in una lamina ultrasottile d’oro e grafite.
Una nuova tecnica di microscopia quadridimensionale è stata sviluppata presso il Physical Biology Center for Ultrafast Science and Technology del California Institute of Technology da un gruppo di diretto da Ahmed Zewail, premio Nobel per la chimica nel 1999. Con le moderne tecniche di microscopia, i ricercatori sono in grado di osservare la struttura statica degli oggetti con una risoluzione migliore di un miliardesimo di metro, grazie a fasci di elettroni che vengono diffusi dai nano-oggetti e che possono essere utilizzati per ottenere immagini. Ma i soli elettroni non sono sufficienti a catturare immagini del comportamento degli atomi sia nello spazio sia nel tempo, a causa di una caratteristica intrinseca dell’apparecchiatura e della preparazione del fascio. Zewail e colleghi hanno superato questa difficoltà, introducendo a tutti gli effetti la quarta dimensione nella microscopia elettronica ad alta risoluzione, grazie allo sviluppo di quella che è stata definita una tecnica di imaging a singolo elettrone ultraveloce, e in cui ogni traiettoria elettronica viene attentamente controllata sia nel tempo sia nello spazio.L’immagine risultante prodotta da ciascun elettrone rappresenta una istantanea catturata in un tempo dell’ordine di un femtosecondo: come i fotogrammi di un film, la sequenza di milioni di queste immagini può essere composta in una sorta di filmato digitale di movimenti su scala atomica.Come riferito nell’articolo pubblicato sulla rivista “Science”, gli studiosi hanno utilizzato la nuova apparecchiatura 4D per osservare il comportamento degli atomi in una lamina ultrasottile d’oro e grafite. In un secondo lavoro pubblicato sull’ultimo numero della rivista “Nano Letters”, Zewail dei colleghi descrivono invece la visualizzazione ottenuta con una scansione temporale meno estrema, con fotogrammi che durano millesimi di secondo. Dopo aver colpito con un impulso di calore un campione di carbonio, si è così potuto osservare in modo diretto come le oscillazioni dei singoli atomi, in un primo momento casuali, tendano col passare del tempo a sincronizzarsi e a oscillare in fase. "Con questa tecnica di cattura delle immagini in 4D, i moti su scala atomica, responsabili dei fenomeni strutturali, morfologici e nanomeccanici possono essere visualizzati direttamente e con ciò – almeno questa nostra aspettativa – compresi meglio”, ha spiegato Zewail. (fc)

giovedì 20 novembre 2008

Archeologia: ritrovati i resti di Niccolò Copernico, grazie a due capelli

VARSAVIA - Il confronto fra il Dna di un cranio rinvenuto nel 2005 in una tomba nella cattedrale di Frombock, in Polonia, e quello di due capelli ritrovati in un testo appartenuto a Niccolò Copernico ha consentito a un'equipe di studiosi polacchi e svedesi di stabilire con certezza che il cranio apparteneva al grande astronomo polacco.Di Copernico (Mikolaj Kopernik, 1473-1543), che per primo comprese che è la terra a orbitare attorno al sole e non viceversa - si sapeva che era stato sepolto a Frombock, ma si ignorava dove e anche in che data. Nel 2005, durante una ristrutturazione nella cattedrale, il prof. Jerzy Gassowski dell'Istituto polacco di antropologi e archeologia di Pultusk, ritrovò, fra diversi altri resti, un cranio e qualche altro osso e si pensò alla possibilità che potesse trattarsi dei resti di Copernico."Ora abbiamo la certezza che il cranio scoperto a Frombock é quello di Niccolò Copernico", ha dichiarato oggi ai giornalisti Gassowski. A permettere il confronto della sequenza del Dna sono stati i "preziosissimi" capelli ritrovati fra le pagine di un manuale di astronomia appartenuto e frequentemente consultato da Copernico, il "Calendarium Romanum Magnum" di Johannes Stoeffler, del 1518."Quando il vescovo di Frombock - ha detto Gassowski - mi ha chiesto di riprendere le ricerche, ero molto scettico. Il compito mi pareva impossibile. Centinaia di resti sono infatti sepolti nella cattedrale di Frombock. Ma gli storici già sapevano che verso la fine della sua vita Copernico fu canonico nella cattedrale e gli fu affidata la custodia dell'altare diSant'Andrea (oggi della Santa Croce) e hanno ipotizzato che i suoi resti fossero stati inumati in quello stesso altare. Lì furono infatti ritrovati i resti di 13 persone, fra cui il cranio di un settantenne. E Copernico morìa 70 anni. "Ora costruiremo la tomba di Copernico nella cattedrale per commemorare questa illustre figura storica", ha concluso Gassowski.

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mercoledì 19 novembre 2008

Conservare le cellule della pelle contro la vecchiaia

Riportare indietro l'eta' della pelle usando le proprie cellule under 30. Basta congelarle in tempo per utilizzarle quando arrivano le rughe. Saranno le stesse cellule - in questo caso i fibroblasti - rimaste all'eta' che avevano al momento della crioconservazione, a 'riparare' i danni del tempo. Un lifting senza bisturi, perche' e' sufficiente un'iniezione. "Non e' fantascienza. Il 'lifting con terapie cellulari', con l'uso delle cellule 'giovani' dello stesso paziente, e' una sperimentazione gia' in corso, con risultati preliminari positivi ", spiega all'ADNKRONOS SALUTE Maurizio Valeriani, primario di chirurgia plastica all'ospedale San Filippo Neri di Roma, che sara' coinvolto nella fase successiva della sperimentazione, in cui dovra' essere valutata la capacita' di spostare visibilmente indietro le lancette dell'orologio. E in un futuro non troppo lontano "c'e' anche il lifting con le cellule staminali, un progetto a cui stiamo lavorando". I primi risultati sulla sicurezza del trattamento con le cellule under 30, spiega ancora Valeriani, sono stati presentati nei giorni scorsi al primo Congresso sammarinese di chirurgia plastica, dermatologia e medicina estetica, a San Marino, dal professor Niccolo' Scuderi, docente di chirurgia plastica all'universita' Sapienza di Roma, che ha avviato la sperimentazione e che la coordina.
Ora lo studio proseguira', a livello nazionale, in diversi centri. "La novita' - spiega Valeriani - sta nella possibilita' di utilizzare i fibroblasti 'giovani' dello stesso paziente per ringiovanire la pelle, in modo quasi naturale". Ovviamente, una volta che la procedura sara' a regime, il consiglio sara' di congelare le cellule prima possibile. I fibroblasti, infatti, sono deputati alla produzione di collagene, proteina importante nel sostegno e compattezza della pelle. Con l'invecchiamento i fibroblasti si riducono, quantitativamente e qualitativamente. Ripristinandone la presenza, con cellule quanto piu' giovani possibile, si ottiene una pelle piu' sana, compatta e elastica. "E' gia' possibile - continua Valeriani - iniettare i fibroblasti del paziente appena prelevati, ma utilizzando quelli giovani, se conservati per tempo, i risultati saranno senz'altro migliori". La conservazione, del resto, e' semplice: "si preleva un piccolo quantitativo di pelle dietro l'orecchio. Dopo un particolare procedimento si estraggono e si espandono i fibroblasti che poi vengono congelati".Sul fronte del 'lifting del futuro' il prossimo traguardo, nemmeno tanto lontano, e' l'uso delle cellule staminali. "Un progetto a cui stiamo lavorando", anticipa Valerani. "Nel grasso estratto con normali operazioni di liposuzione - spiega - vi sono miliardi di cellule staminali". Una scoperta recente che apre la strada a numerosi nuovi impieghi delle cellule 'bambine' perche', in questo caso, non ci sarebbero problemi etici e la fonte di staminali e' molto ricca."Usando queste nuove metodologie - precisa l'esperto - si potranno ricreare intere strutture del nostro corpo, con importanti implicazioni da un punto di vista funzionale e morfologico. Stiamo lavorando - conclude Valeriani - ai meccanismi di stimolazione di queste cellule, individuando quali sono i messaggi che le inducono a replicarsi e a differenziarsi nei vari tessuti".
Fonte: Aduc (19/11/2008)


Mappato il genoma del canguro (Grandi sezioni del dna sono identiche a quelle dell'uomo)

Scienziati australiani hanno completato dopo quattro anni di lavoro la mappatura del Dna di un piccolo canguro. Hanno cosi" concluso che il simbolo nazionale ha molto in comune con l"uomo, piu" di quanto finora ritenuto: "Grandi sezioni di genoma sono praticamente identiche". Secondo gli studiosi del Centro di eccellenza per la genetica dei canguri, l"ultima volta che uomini e canguri hanno avuto un antenato comune e" stato almeno 150 milioni di anni fa.
Redazione MolecularLab.it (19/11/2008)

Il lato cognitivo della schizofrenia

L'acido chinurenico sembra depotenziare l'attività di due neurotrasmettitori, l'acetilcolina e il glutammato, coinvolti nell'attività cerebrale di problem solving.

Elevati livelli di una sostanza, l'acido chinurenico, sarebbero coinvolti nelle dificoltà di problem solving che caratterizza i pazienti schizofrenici: è questo il risultato di una ricerca condotta da neuroscienziati della Ohio State University, che hanno presentato lo studio al convegno della Society for Neuroscience in corso a Washington (D.C.).
La schizofrenia viene solitamente descritta come caratterizzata da allucinazioni e deliri, ma uno dei suoi tratti caratteristici è rappresentato anche da disturbi della sfera cognitiva (duisturbo formale del pensiero) che investe anche la flessibilità del pensiero e il processo decisionale del paziente: a volte ipazienti si prefiggono uno scopo e pianificano il modo per raggiungerlo ma, anche se le circostanze lo impongono, non sono in grado di adattare il loro pensiero a una strategia alternativa.
La ricerca suggerisce che farmaci capaci di ridurre i livelli cerebrali di acido chinurenico potrebbero affiancarsi con successo agli antipsicotici per trattare questi disturbi cognitivi. "Gli antipsicotici funzionano molto bene contro quelli che chiamiamo sintomi positivi, ma hanno ben scarso effetto sul deficit cognitivo", spiega John P. Bruno, lo psichiatra e neuroscienziato alla Ohio State University che ha diretto lo studio. "Ci sono svariate strategie terapeutiche contro la schizofrenia, ma una che non è mai stata esplorata e in cui nutriamo grandi speranze ha a che fare con la produzione di acido chinurenico"
Bruno e colleghi hanno testato gli effetti dell'acido chinurenico sulle capacità cognitive dei ratti. La schizofrenia era considerata in genere una patologia troppo complessa per essere modellizzata dal cervello di un animale, ma i ricercatori hanno sviluppato un modello nel ratto focalizzato su specifici deficit cognitivi che interessano la corteccia prefrontale: "Non pensiamo affatto di aver creato dei ratti con la schizofrenia. Quello che abbiamo potuto fare è creare un modello di un lato neurologico della patologia, o almeno di alcuni suoi aspetti, osservando che i problemi comportamentali esibiti somigliano a quelli che vediamo nella clinica", spiega Bruno.
Dalle osservazioni dei ricercatori è così risultato che solo il 28 per cento degli animali nei quali a un certo punto era stata indotta una sovrapproduzione di acido chinurenico si sono mostrati in grado di risolvere problemi che tutti i ratti del gruppo di controllo riuscivano a superare, come peraltro avevano fatto quegli stessi ratti prima dell'induzione del'eccesso della sostanza.
L'acido chinurenico sembra depotenziare l'attività di due neurotrasmettitori - l'acetilcolina e il glutammato - coinvolti nell'attività cerebrale di problem solving. Nella schizofrenia questi due neurotrasmettitori sono già a livelli cerebrali anormalmente bassi, ma elevati livelli di acido chinurenico finiscono per interferire anche con gli alfa-7 recettori, che regolano, almeno in parte, l'azione di acetilcolina e glutammato sui neuroni bersaglio. (gg)

Antimateria creata dall'oro

Il risultato apre la strada allo studio dell'antimateria senza apparati giganteschi e dai costi esorbitanti.

Basta un piccolo campione di oro delle dimensioni della capocchia di uno spillo, un fascio laser che incide su di esso che improvvisamente appaiono più di 100 miliardi di particelle di antimateria, in particolare positroni, che fuoriescono in un getto di plasma di forma conica.È questa, in breve, la descrizione di una risultato ottenuto presso i Laboratori Livermore, negli Stati Uniti, che aprono la strada alla produzione di una enorme quantità di antimateria anche in laboratori di piccole dimensioni e alle ricerche sui fenomeni astrofisici come i buchi neri e i burst di raggi gamma senza apparati giganteschi e dai costi esorbitanti.
“Abbiamo rivelato molta più antimateria di chiunque altro finora in un esperimento laser”, ha spiegato Hui Chen, ricercatore del Livermore che ha guidato lo studio. “Oltre a ciò abbiamo dimostrato la possibilità di produrre un significativo numero di positroni utilizzando un laser a impulsi brevi.”Chen e colleghi infatti ha utilizzato un laser in grado di produrre un fascio estremamente intenso ma a impulsi estremamente brevi per colpire un bersaglio di oro di un millimetro di lato.Nell’esperimento, il laser ionizza e accelera gli elettroni, che vengono indirizzati contro il bersaglio di oro. Sulla loro traiettoria, gli elettroni interagiscono con i nuclei d’oro. In seguito a un'ulteriore complessa interazione si producono i positroni, che rappresentano l’antimateria degli elettroni.Le particelle di antimateria sono annichilate quasi istantaneamente al contatto con la materia e convertite in raggi gamma. Tuttavia, prima che avvenga l’annichilazione, i positroni si comportano, per molti aspetti, come elettroni che possono essere facilmente rivelati con strumenti come gli spettrometri. (fc)

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martedì 18 novembre 2008

Inventato un biosensore in grado di identificare le malattie sfruttando la nanotecnologia

Un team di scienziati dell'Università di Leeds, nel Regno Unito, ha inventato un biosensore in grado di identificare le malattie sfruttando la nanotecnologia. Il dispositivo, che potrebbe rivoluzionare le scienze diagnostiche, utilizza gli anticorpi per il rilevamento dei biomarcatori, molecole presenti nell'organismo utilizzate per identificare le patologie.
Questo ambizioso progetto, denominato ELISHA, e sostenuto dall'UE con un finanziamento pari a 2,7 milioni di euro, ambisce a ridurre a 15 minuti il tempo di diagnosi. La nuova invenzione potrebbe essere immessa sul mercato in appena tre anni.L'attuale metodo di diagnosi, sviluppato negli anni Settanta del Novecento, presenta numerosi difetti e si basa sull'analisi di campioni ematici e di urina. Gli esami devono essere effettuati in un laboratorio medico da parte di personale altamente qualificato, hanno una durata di circa due ore e costi elevati. Una tecnica semplificata, che permetterebbe una diagnosi più rapida a fronte di costi minori e in un luogo più comodo come un ambulatorio medico, intimorirebbe meno i pazienti e sarebbe economicamente più conveniente per gli ospedali e per i servizi sanitari.Questo è ELISHA ("Electronic immuno-interfaces and surface nanobiotechnology: a heterodoxical approach" - "Nanobiotecnologia delle superfici e delle interfacce immuni elettroniche: un approccio non convenzionale") con il suo nuovissimo biosensore per la diagnosi.
Un gruppo costituito da nove partner provenienti da cinque paesi dell'Unione europea, tra i quali vi sono università, istituti di ricerca e PMI, ha sviluppato un dispositivo che renderà la diagnosi meno costosa e ne aumenterà al contempo il campo di applicazione.Il dott. Paul Millner della Facoltà di scienze biologiche dell'Università di Leeds afferma "Siamo convinti che questo dispositivo rappresenti la prossima generazione dei test diagnostici. Ora siamo in grado di rilevare pressoché tutti gli analiti (sostanze associate alla malattia) in modo più rapido, economico e semplice di quanto non lo facciano i metodi diagnostici attualmente in uso. Crediamo che questo potrebbe rivoluzionare il rilevamento delle malattie."Il dispositivo ELISHA (che potrebbe essere in vendita tra tre anni) ha attualmente le dimensioni di un consueto dispositivo per il pagamento con carta di credito, ma il consorzio ha in programma di ridurle fino a raggiungere le dimensioni di un telefono cellulare. Sfrutta la nanotecnologia (vale a dire la manipolazione della materia su scala microscopica) per rilevare i biomarcatori nel sangue o nell'urina. Il risultato è poi costituito da una risposta positiva ("si") o negativa ("no") sulla presenza di una specifica malattia. All'interno dello strumento sono posizionati diversi microchip per l'analisi di varie patologie.Il dott. Millner afferma: "Abbiamo progettato uno strumento semplice per rendere facile sia l'impiego che la comprensione dei biosensori. Il loro impiego sarà simile a quello dei kit con biosensore per il monitoraggio del glucosio attualmente utilizzati dai pazienti diabetici".Lo strumento potrebbe trovare impiego per l'identificazione di numerose malattie, tra le quali vi sono il cancro alla prostata e alle ovaie, ictus, malattie cardiache, sclerosi multipla e infezioni micotiche. Il consorzio ELISHA ritiene che la sua versatilità potrebbe permettere il rilevamento della tubercolosi e della presenza del virus dell'immunodeficienza umana (HIV). La sua rapidità di risposta si tradurrà in una diagnosi più rapida della malattia e in un corretto indirizzamento del paziente verso gli specialisti più adeguati.La tecnologia ELISHA ha grandi potenzialità per il futuro. Il project manager di ELISHA, il dott. Tim Gibson dice: "Gli analiti utilizzati nella nostra ricerca rappresentano solo una minima parte delle potenziali applicazioni. Abbiamo dimostrato che il dispositivo può essere utilizzato anche per applicazioni ambientali, ad esempio per rilevare la presenza di erbicidi e pesticidi nell'acqua o di antibiotici nel latte".
Redazione MolecularLab.it (18/11/2008)

lunedì 17 novembre 2008

SUPER MICROSCOPI: Il nuovo strumento a neutroni della stazione britannica Isis 2 consente di vedere la struttura atomica di tutti i tipi di materiali

Il nuovo strumento a neutroni della stazione britannica Isis 2 consente di vedere la struttura atomica di tutti i tipi di materiali.

L'ultimo esemplare della nuova generazione di super microscopi è pronto a mostrare i dettagli della struttura interna di qualsiasi materiale. Particolari diecimila volte più piccoli di un capello.
Situato all'interno della stazione di ricerca Isis 2 del Rutherford Appleton Laboratory nell'Oxfordshire (Gb), il super microscopio è una sorgente di neutroni che sfrutta il movimento di tali particelle per indagare la composizione dei materiali. “Durante gli anni 90 ci siamo resi conto che vi erano studi che non potevano essere effettuati con la strumentazione di Isis 1” afferma Andrew Taylor, direttore del centro, “in particolare l'analisi dei polimeri e degli aggregati, costituiti da grandi molecole”. Per capirne la struttura c'è bisogno di ricorrere ai neutroni. Il microscopio si compone di una gigantesca camera il cui cuore è costituito da una lampada irradiante al tugseno delle dimensioni di una scatola di biscotti, all'interno del quale i protoni (20 mila milioni di milioni di particelle al secondo) vengono portati ad una velocità pari all'84 per cento quella della luce. Il target è circondato da camere (bunker houses) disposte ad anello, in cui i ricercatori possono disporre il campione di materiale da analizzare. Registrando le traiettorie seguite dalla corrente di neutroni surriscaldati che vengono iniettati verso i materiali, gli scienziati possono ricostruire la composizione dei campioni e la loro struttura a livello atomico.
La tecnologia di Isis 2 è più potente di altre tecniche impiegate per scopi analoghi, come, per esempio, la scansione ai raggi X. “I neutroni colgono la struttura del nucleo dell'atomo, i raggi X rilevano gli elettroni”, spiega Taylor, “ciò significa che i neutroni captano le particelle di idrogeno, mentre i raggi X no”. Secondo i ricercatori Isis 2 potrà aiutare lo sviluppo delle scienze molecolari e delle nanotecnologie e potrà avere applicazioni immediate. Per esempio nei tessuti hi-tech. Per ora infatti, tra le scoperte rese possibili dal nuovo strumento c'è la “formula segreta” delle ragnatele, dal momento che Isis 2 è stato in grado di mostrare, per la prima volta, il modo in cui si aggregano le molecole che costituiscono il materiale. (e.r.)

Scoperte le rocce mangia CO2

Durante le loro ricerche nell’Oman (Medio Oriente), il gelogo P.Kelemen e il geochimico J.Matter hanno scoperto una roccia che assorbe la CO2 e potrebbe aiutare l’uomo a frenare il surriscaldamento del pianeta.
Quando la peridotite (composta da silicio, ossigeno, calcio, magnesio e ferro) viene a contatto con l’anidride carbonica, la assorbe e avvia una reazione geochimica, che porta a convertire il gas in minerali carbonati, come la calcite. Il processo è naturalmente molto lento, ma gli scienziati prevedono di poterlo accelerare artificialmente, portando le rocce in particolari condizioni di pressione e temperatura.

Secondo quanto dichiarato dagli scienziati:
[…] soltanto con le peridotiti dell’Oman si potrebbero sottrarre ben 4 miliardi di tonnellate l’anno di CO2: una quota più che significativa rispetto ai 30 miliardi emessi ogni anno dalle attività umane.

Senza contare che queste rocce sono presenti anche negli Stati Uniti, nei Balcani, in Papua Nuova Guinea e in Caledonia.
Questo tipo di sperimentazioni sulle rocce non sono nuove al mondo scientifico, e gli stessi ricercatori sono cauti sui possibili sfruttamenti futuri della loro scoperta. Certo è che questo rocce potranno essere un mezzo per liberarsi della CO2 in eccesso, ma dovranno essere un metodo da affiancare ad altri già noti o in fase di sviluppo.Il loro studio è stato pubblicato da Proceedings of the Natural Academy of Sciences.

sabato 15 novembre 2008

Dal Politecnico di Zurigo: Mini motore elettrico da 1 milione di giri al minuto


Un motore elettrico della grandezza di una scatola di fiammiferi che raggiunge un milione di giri al minuto, tre volte la velocità massima degli apparecchi finora in uso: è la novita elaborata da ricercatori del Politecnico federale di Zurigo (PFZ), che potrebbe trovare applicazioni nell'industria elettronica.

I motori elettrici finora utilizzati raggiungono al massimo 300'000 giri al minuto, scrive oggi l'ateneo in una nota. Il nuovo motore, che nonostante le ridottissime dimensioni sviluppa una potenza di 100 Watt, si trova ancora in fase sperimentale. Potrebbe essere utile in particolare per i microtrapani utilizzati nella produzione di componenti elettronici.
Gli stessi ricercatori,praticamente in soli due anni sono riusciti a raddoppiare la velocità di questo piccolo gioiello tecnologico;come si evince da questo articolo del 2006: ARTICOLO '06

venerdì 14 novembre 2008

Il Dna diventa fibra ottica

Una nuova tecnica permetterà di utilizzare il Dna come una fibra ottica, utile per condurre la luce utilizzata dai computer ottici al posto dell’elettricità o nei sistemi di fotosintesi artificiale, futuri sostituti dei pannelli solari.
Le nuove tecnologie spesso prendono spunto dalla natura per creare nuovi prodotti e strutture sempre più all'avanguardia. Questa volta gli scienziati non si sono limitati a questo ma hanno trovato il sistema di usare i filamenti del Dna a mo' di fibre ottiche.
Il team del prof. Bo Albinsson dell'Università della Tecnologia di Goteborg, in Svezia, ha ideato un cavo sottilissimo che prende forma da un mix auto-assemblante di Dna e cromofori, molecole in grado di assorbire e trasmettere la luce. Il risultato sono fibre fotoniche, del tutto simili a quelle che si trovano in natura - nelle alghe ad esempio - in grado di trasmettere informazioni attraverso fasci di luce.
Nello studio è stato usato un tipo di cromoforo dall'affinità molto alta con le molecole di acido desossiribonucleico, tanto da inserirsi automaticamente tra i pioli della struttura molecolare, rappresentati dalle basi azotate. Nel caso in cui un cromoforo venga danneggiato, la grande compatibilità tra molecole fa sì che venga automaticamente sostituito da un altro simile. Sono poi proprio i cromofori, supportati dal filamento di Dna, a trasferire la luce da un capo all'altro della fibra microscopica, lunga 20 nanometri e dal diametro di pochi nm.
Fibre ottiche di questo tipo potrebbero avere un utilizzo importante nella produzione di computer ottici, che utilizzano la luce al posto dell'elettricità, e nei sistemi che riporducono artificialmente la fotosintesi clorofilliana e che potrebbero rappresentare il futuro sostituto dei pannelli solari odierni.

LAB Giovedì 13 novembre 2008 - 15:02
Valentina Tubino

Nei nanocavi di silicio il futuro dell'elettronica

Il processo di nucleazione a partire da nanoparticelle d'oro è stato seguito "in diretta" grazie alla tecnica di microscopia elettronica a trasmissione.
I nanocavi di silicio potrebbero essere la soluzione ideale per la realizzazione dei futuri computer e dell’elettronica di consumo per una loro interessante caratteristica: crescono sempre esattamente allo stesso modo.I ricercatori del Thomas J. Watson Research Center dell’IBM di Yorktown Heights, nello stato di New York, in collaborazione con quelli del Birck Nanotechnology Center della Purdue University hanno utilizzato la tecnica di microscopia elettronica a trasmissione per osservare in che modo procede il processo di nucleazione dei nanocavi di silicio in cui piccole particelle di quest’elemento cominciano ad aggregarsi fino a formare strutture rettilinee - i cosiddetti nanocacavi - secondo un processo del tutto analogo alla formazione del ghiaccio quando l’acqua viene portata al di sotto della temperatura di solidificazione."L’aspetto inusuale della nostra ricerca è che stiamo osservando questi fenomeni a una scala estremamente piccola”, ha spiegato Eric Stach, docente di ingegneria dei materiali della Purdue e autore dell'articolo apparso sull'ultimo numero della rivista "Science". "I maggiori risultati sono la possibilità di osservare il processo di nucleazione a tali scale e che lo stesso processo può essere ripetuto virtualmente all’infinito, cosicché è possibile misurare e prevedere che cosa stia accadendo: queste due circostanze consentono di progettare, con un alto grado di confidenza, sistemi che successivamente entreranno nella produzione di nanocavi per l’elettronica utilizzando questo tipo di materiale come materia prima."
Secondo quanto descritto nel lavoro, i nanocavi di silicio cominciano a formarsi su un supporto costituito da piccole nanoparticelle d’oro, di dimensioni che vanno da 10 a 40 nanometri, o miliardesimo di metro (per confronto, un globulo rosso umano è 100 volte più grande di una di queste particelle).
Le particelle d'oro sono poste nella camera a vuoto del microscopio e poi esposte a un gas contenente silicio: l'oro funge quindi da catalizzatore per la separazione dal gas delle particelle di silicio che vanno poi a formare i nanocavi solidi.
Le particelle sono riscaldate fino a 600 gradi Celsius o più, e ciò causa una fusione in condizioni di “supersaturazione”: l’oro liquido contiene troppo silicio, che perciò precipita in forma solida iniziando la formazione del nanocavo.
"Abbiamo riscontrato che si verifica una singola nucleazione in ogni gocciolina e che tutti tali eventi avvengono in modo controllabile”, ha continuato Stach. "Ciò implica che se si sta cercando di creare dispositivi elettronici basati su queste tecnologie, è possibile prevedere realmente quando sta per iniziare il processo di crescita del cristallo." (fc)